sabato 13 ottobre 2012

Non-luoghi

Luci al neon, una panchina in freddo marmo e il sapore dell'attesa. Quel sapore fatto di tante cose, frequenti tastate alla tasca destra per sentire se il biglietto è ancora al suo posto, pollici che girano, occhiatacce all'orologio, continui movimenti per sentirsi un po' comodi in quella panchina in quell'avamposto nel nulla. Odore di pianura, aranceti e fertilizzanti, odore di nafta bruciata e sigarette spente prematuramente per evitare di restare piantati a terra.
Silenzio, finto silenzio, i ferrovieri che seguono Cosenza-Perugia e viaggiatori, finti o veri che siano, a consumare fette della propria vita tra quei marciapiedi secolari, quei marciapiedi che hanno un nome. Valigie ad assisterli, ad accompagnarli in questo tempo che vola come un gabbiano impaurito e voglioso di libertà, in questo spicchio di mondo che da quel tempo dipende come pochi altri.
Le luci rosse dei segnali, sornioni a riflettersi sui binari, lucidi, come sempre. I fili della catenaria che si stagliano tra le ultime luci del giorno, filo spinato verso quel cielo che a noi umani non è permesso. Almeno in teoria.
Rumore di ingranaggi e frizioni, si risveglia la piccola automotrice sul secondo binario. Treno 3757 per Crotone, ultimo della giornata, poi tutti a nanna.
I non luoghi, le stazioni. Quei posti fatti solo per transitare, sgattaiolare tra una partenza e una destinazione, monumentali o meno che siano. Un nome, una progressiva chilometrica, un numero di posto di blocco, non un luogo. Forse è riduttivo chiamarli luoghi, non si sa, forse è dispregiativo, o forse è un misero complimento. Non sono luoghi fatti per restare, le stazioni. Sono luoghi per scappare, non importa da cosa, basta salire sul primo treno e scappare. Sono luoghi per scegliere, scegliere quale diramazione impegnare, quale carta giocare. Sono luoghi per pensare, per piangere un amore appena scoperto o per andarlo a cercare, 1033 chilometri più a sud. Sono luoghi per andare via, per due settimane, per un mese o per tutta la vita. Dalla vita.
Giustamente, come fai a considerare un luogo qualcosa del genere? Sarebbe un po' come chiamare un film "serie in rapida successione di fotografie", se mi è permessa questa freddura.
Della vita forse non ci ho capito molto, ma ciò che è certo è che si viaggia a binario unico.

And who wants to understand, understands!


sabato 22 settembre 2012

Und die kleine, und die spiele, und die arbeit.

"E finalmente una sera, dopo il solito sguardo senza parole, ebbi il coraggio di rivolgergli la domanda che avevo sulla punta della lingua da molto tempo:
<>
Mio padre non rispose subito. Allora io aggiunsi: <>
Lui mi prese la faccia tra le mani e mi guardò dritto negli occhi. Disse con una voce profonda, quasi commossa: <>



Tu che fai? Binario 2 o Binario 3? Forse quei tabelloni della stazione di Paola sono, in un certo senso, l'immagine della mia pistola alla tempia del bagasciàro nato. La mia storia, la stessa storia di tanti miei conterranei, gli uomini dalle valigie di cartone, la storia del vecchietto incontrato oggi sul regionale per Catanzaro Lido che tornava a Crotone dopo 26 anni a Valenciennes, in Francia, e si stupiva di come i vigneti di Cirò fossero ancora lì, immobili, come se quei 26 anni fossero solo carta straccia. La storia della mia terra, le sue partenze e i suoi arrivi, i suoi boschi e le sue spiagge, i tramonti accecanti sulla Statale 106.


"Vino, bancarelle, terra di sud, terra di sud, terra di confine, terra di dove finisce la terra."

Ogni volta che ci si torna lo si assapora quel vino, quel vino che trasuda da questa terra infiammata, quel gusto aspro e piacevolissimo fatto di consapevolezze e consonanti raddoppiate. Ogni volta è strano andarsene lì al Nord, specie quando non ci vai propriamente in vacanza, specie quando i chilometri cominci a macinarli come niente, a non contarli proprio più. Voglia di assaporare quel vino, voglia di sud, voglia di casa.

sabato 25 agosto 2012

#580

Ed in un viaggio può capitare di ritrovarsi a ricontare tutto quel che è stato di te.
Quello che hai perso, quel che hai trovato,
quel che hai goduto, quel che hai sprecato,
quello che hai chiuso e quello di te che hai aperto..

Qualcuno ogni tanto mi chiede perchè conservo tutti i biglietti dei viaggi che mi tocca fare, anche quei Catanzaro Lido - Torre Melissa di cui avrò ormai più di un centinaio di copie conservate in quella scatola di scarpe giù nell'armadio. Ogni viaggio a suo modo è importante, sa essere importante, e spesso ci se ne accorge dopo, che siano dieci minuti o dieci anni.
IC 580, giorno 5 agosto, completa tratta da Terni a Milano Centrale, epilogo della ormai abitudinaria "settimana d'aria" da Alessandro in quella città che più vado avanti e più mi sento cucita addosso. Carrozza 3, posto 66 al finestrino e tanto sonno. Ho perso l'abitudine a dormire la notte, più per svogliatezza che per altro, ma vabbè.
Da Terni a Spoleto non riesco a recuperare il sonno perduto, chi conosce quel tratto di linea capirà il perchè, mentre da lì fino Perugia fortunatamente le palpebre cedono un pò il passo. Poi Perugia Ponte San Giovanni, la stazione che sembra essere uscita da un plastico, seguita da un giro assurdo tra colline e controcolline, fino ad arrivare a Perugia Fontivegge, col 541 per Roma già salutato la sera prima pronto sul terzo binario.
Perugia dà una botta di vita a quel treno che da Terni aveva caricato non più di uno-due persone a stazione, esclusa Assisi dove il turismo religioso ti ronza fastidiosamente intorno anche alle 6 del mattino, preghiere ad alta voce appena partiti comprese. Fino a Perugia ero da solo nel mio modulo (era tanto bello quando potevo chiamarli scompartimenti, che cazzen), alchè arriva una ragazza col posto prenotato davanti a me. Alta, capelli corti, carnagione chiarissima e accento facilmente riconducibile al lombardo. Si accomoda e comincia a leggere un libro. Sguardo fisso, serio, che esprime quella vaga sensazione da puzza sotto il naso che i lombardi hanno un pò per carattere. Mi metto un pò a scrivere, e nel frattempo oltrepassiamo Perugia, Ellera, Passignano, Tuoro, per arrivare poi nel deserto di Terontola. Un annuncio incomprensibile del capotreno è la prima risata assieme, il suo replicarsi in arrivo ad Arezzo è la miccia per cominciare un pò a scambiarsi quattro chiacchiere. Le solite quattro chiacchiere da gente che a quei treni ha regalato un bel pò di fette della propria vita, origini e destinazioni che si intrecciano con ritardi assurdi e carrozze senza aria condizionata.
"Ma sei sicuro che questo è un Intercity? Dagli interni mi sembra un Eurostar!" mi chiede in uscita da Firenze Santa Maria Novella, la scusa per cominciare a parlare seriamente di ferrovie. Le racconto della mia passione, è sorpresa che ci sia gente che passi il proprio tempo libero appresso ai treni, per quanto lei li adori e siano praticamente l'unico mezzo che usa per fare su e giù da Cremona a Perugia, dove si è laureata qualche mese fa. Il viaggio tra Firenze e Bologna trascorre tra qualche aneddoto sulle maioliche di Deruta e i particolari sulla stazione di Precedenze in mezzo alla Grande Galleria dell'Appennino, mentre un turista giapponese salito a Firenze e piazzatosi al posto dirimpetto al mio dopo poco si addormenta.
"Dove siamo qui?"
"San Benedetto Val di Sambro"
"Ma tu sei un mostro!"
Mi rimase impressa questa scenetta, come le risposi in quella maniera con disarmante tranquillità rendendomi conto solo successivamente di quanto sarebbe bastato un semplice ed open-source "mezz'oretta e siamo a Bologna". Ci fecimo una risata e tornammo a parlare di maioliche ed incisioni, di viaggi fatti qua e là, di Calabria. Insomma, i discorsi di due viaggiatori che il destino (o il sistema di prenotazione di Trenitalia) ha voluto mettere lì, sul 580, il 5 Agosto 2012 in due posti contigui. Perchè è quando si formano queste piccole e strane intese così, dal nulla, senza aspettarselo che capisci il vero valore, la vera bellezza del viaggio. Mi accadde già due anni prima con Rosita, sul mio 615 tornando da Milano, e ancora oggi ogni tanto qualche parolina e qualche caffè a Santa Maria Novella capita di scambiarseli. Ridevamo spesso, anche vedendo l'espressione decisamente comica del giapponese bellamente addormentato, ed era tremendamente curiosa la sua espressione interrogativa, quel "Ah si?" classicamente padano.
Poi arrivò Bologna. Mentre si continuava a parlare, un annuncio.
"Si avvisano i signori viaggiatori che il treno partirà con un ritardo di 180 minuti a causa di un deragliamento nella stazione di Lavino."
In quei casi è difficile capacitarsi della situazione, capire cosa fare e cosa non fare. Noi ce la ridemmo un pò, per poi tentare di capire il da farsi. Sui tabelloni tutti i treni sono previsti egualmente con 3 ore di ritardo, non resta che aspettare. Tra una chiamata e l'altra passa una sana mezz'ora, dopodichè un altro annuncio.
"Si pregano i signori viaggiatori diretti a Modena, Reggio Emilia, Parma, Fidenza, Piacenza e Lodi di recarsi al binario 1 Tronco ovest dove troveranno treno regionale in partenza per Milano Centrale. Questo treno prosegue senza fermate intermedie per Milano Centrale"
Lei era diretta a Piacenza, dove avrebbe poi cambiato per Cremona. L'annuncio era un pò ambiguo, mi recai dal capotreno per chiedere maggiori informazioni, il quale mi confermò che il nostro treno avrebbe bypassato l'incidente transitando per Verona. Di fretta rientrai in carrozza, gli spiegai la situazione e la aiutai a scendere i bagagli, il capotreno intimò di affrettarsi e non era il caso di restare bloccati a Bologna.
L'accompagnai fino all'imbocco del sottopassaggio.
"Buona fortuna". E finì là, in mezzo ad un assurdo via vai di viaggiatori, schede treno e pensieri.
Ritornai sul treno, dopo pochi minuti partii, e dopo quei pochi minuti cominciai a vederci bene in quella bolgia di pensieri. Quel che hai perso, quel che hai trovato, quel che hai goduto, quel che hai sprecato.
E' finito tutto con un buona fortuna. Sappiamo chi siamo, ma non i nostri nomi. Due viaggiatori distratti, persi tra le campagne di Nogara o su un bus sostitutivo tra Piacenza e Cremona, due strade che per un pò si sono affiancate e ora corrono chissà quanto distanti tra loro, e chissà se un giorno si incroceranno di nuovo. Forse si, in parte ci credo, in fondo i treni servono ad andare come servono a tornare.
Lo avrei voluto prendere quel Regionale, quando vidi il segnale disposto a via libera per il mio treno per un attimo pensai di prendere le valigie di corsa e scappare anche io al binario 1 Tronco ovest. Una cretinata, si, ma in questa vita che di cose belle è abbastanza avara forse sarebbe stato un piccolo sprazzo di cielo sereno, forse non avrebbe portato a nulla di più che qualche altra parolina sulle maioliche di Deruta ma forse avrebbe scacciato questo strano senso di rimorso ogni volta che prendo in mano quel biglietto, anche lui gelosamente conservato dentro quella sdrucita scatola di scarpe.
Non finisce qua. Almeno credo, almeno spero.

martedì 31 luglio 2012

Però...

...però.
Ecco, però le valanghe arrivano all'improvviso. Ci sono tutti i segni per capire che da un momento all'altro possono venir giù, cartelli del soccorso alpino o semplice logica nata da anni di esperienza. E' tutto chiaro, sai che se quella valanga cade potrebbe essere anche per un tuo movimento sbagliato, un passo sul fronte della slavina, una benchè minima cazzata utile nella sua semplicità per scatenare un putiferio. Però credo di essere stato uno dei pochi pazzi al mondo ad aver sciato fuori pista, a fare apposta quel movimento sbagliato, appositamente per far venire giù tutto il costone innevato od almeno provarci. Tuffarsi un'altra volta nell'ignoto senza aspettare Godot.
Gioia che afferri improvvisa, come cantavano i Baustelle. La afferri e la metti nel cassetto, non sapendo chissà quando e se ti ricapiterà. La afferri e cerchi di capirne il valore, la bellezza, cerchi di quantificare tutto ciò che puoi. Invano, perchè in certi momenti si diventa voraci, ossessionati, si sente dentro un voler far cadere quella valanga cento e mille volte, così, perchè mi va, perchè ci va. Perchè quella spiaggia e quella musica sono la sola cosa che serve adesso per far cadere la valanga. Anche per finta.
Ma poi penso...perchè mi trovo a parlare di valanghe col mare a 100 metri da casa?
Forse è solo questione di similitudini, perchè ci sono di quelle cose che con parole semplici non si descrivono.
E poi cantarla a squarciagola.



"Do you think you can tell?"

martedì 10 luglio 2012

Km

E dopo tutto sto tempo stiamo ancora a parlare di chilometri.
Chilometri. Cippi chilometrici, progressive chilometriche, code chilometriche, discorsi chilometrici, distanze chilometriche.
Tachigrafi e cronografi, e se poi ci metti in mezzo gli orafi fai cosa buona e giusta, tanto un posto in più a tavola c'è sempre, magari prima che tu ti accorga come non ci va neanche più uno stecchino Samurai lì in mezzo, in quel buffet dove a furia di fare passare, tra sorrisi e convenevoli di benvenuto, finisci per rimanere a stomaco vuoto e andare a rastrellare in frigo, sia mai è rimasto qualcosa di decente per zittire lo stomaco.
E ancora chilometri. Nell'etichetta di quella bottiglia, "Imported from Denmark", che poi scopri essere una mezza contraddizione quando trovi scritto "Imbottigliato nello stabilimento di Massafra (TA)". E anche lì, chilometri di mezzo.
Quei chilometri che una volta erano scritti sui biglietti ferroviari a lunga percorrenza, come i 1500 e passa di un Trapani - Torino trovato qua e là. E oggi invece solo il numero del treno, 580, il mio stupido nome e "Con questo viaggio risparmi 58kg di CO2".
Mindifuttu, aju mi arrivu i 'ncuna parti.
A caso, non conta dove, da qualche parte. Lontano per definizione. Una lontananza priva di relatività, lontano dal lontano, all'utopica ricerca di qualcosa di buono.
Alla ricerca dei chilometri, soggetti vigliacchi che non la smettono mai di finire, di ricordarti com'è grande e com'è piccolo questo mondo, mondo di amori testardamente sprecati e scudi anti-spread, a presentarsi lì davanti come seconda possibilità, l'ennesima alternativa per ricominciare. Anche da qualche parola scritta su un'agendina, o da quel biglietto sul 580.

E Crotone, che adesso vorresti non rivedere mai più.

venerdì 15 giugno 2012

Middle Summer Night

Tennent's d'ordinanza, bere per dimenticare e dimenticare di bere, brezza estiva, gatti che si litigano, autotreni che passano, treni che non passano più, gatto che dorme, Parkman che resta sveglio.
Rotola portandosi appresso tutta quest'umanità, variopinta e per quanto variopinta quasi da scantarsi.
Ogni tanto un cane abbaia, e chissà cosa gli passa per la testa. Chissà cosa guarda, chissà chi gli ha scatenato quella reazione, chissà chi va cercando. Ecco, perchè in queste notti di mezza estate forse cercare un pò il mondo, l'anima del mondo che in qualche modo ti circonda è un bel gioco da portare avanti.
Forse perchè si, siamo tutti dei piccoli libri. E come i libri, ognuno ha la sua storia e il suo destino. Ci sono quei libri che hanno successo e finiscono nelle librerie di tutto il mondo, da Miami a Berlino, da Caracas a Belvedere Spinello, come ci sono anche quei libri che magari timidamente fanno capolino in qualche libreria o biblioteca comunale di un paesino sfigato di 3000 abitanti. Ci sono anche quei libri, forse la maggioranza assoluta, che restano lì dove sono nati. Libri mammoni, impressi su dei file di Microsoft Word che si generano e restano lì a contemplarsi da soli, su un morbido letto di timori, di rifiuti, di derisioni, di incertezze, di paure. Che alla fine non è neanche così scomodo.
E noi siamo come quei libri, ognuno ha il suo genere. Di lettura e di vita, perchè i libri in qualche modo sanno essere anche nostri fratelli, nostri appoggi nei momenti in cui senti il vuoto sotto le caviglie.
Veniamo poi sfogliati da questa brezza estiva che sgattaiola tra le finestre spalancate, sfogliati come un libro aperto in un parco, e quelle pagine che si muovono da sole tra i nostri "uttana d'Eva" per quelle parole-rifugio improvvisamente violate da questa forza invisibile e bellissima.
Silenziosa, presente, sistematica.
Come i libri.
Come noi.


venerdì 1 giugno 2012

Libertà e libertina

Forse la usiamo con un pò troppa leggerezza questa parola, specie di questi tempi.
Forse non ne conosciamo neanche il significato, a guardar bene.
Forse, ecco, ci crediamo troppo che sia un qualcosa di scontato, almeno per come ce l'hanno raccontata a scuola o in televisione.
Forse perchè già di default noi identifichiamo la libertà guardando all'ordinamento del nostro Stato, guardando con ammirazione intrinseca e vuota a quella parola, Democrazia.
Forse perchè la identifichiamo anche nelle dogane aperte, rimaste li come monumenti del passato a scolorire sotto il sole, nei fiumi di parole che gettiamo su questi blog dritti alle fauci di qualche assassino del tempo.
Forse perchè non ci accorgiamo di tutto il resto.
Forse perchè crediamo sia normale il fatto che prima di fare un figlio si debba fare i conti con lo spread.
Forse perchè crediamo sia una frivolezza il fatto che se quel figlio verrà al mondo la sua istruzione, il suo futuro, i suoi sogni saranno condizionati da qualche agenzia di rating.
Forse perchè dopo due scosse di terremoto abbiamo persino paura ad entrare nelle nostre case, e non possiamo maledire nessuno per questo.
Forse aspettiamo ancora Godot, Superman o chi per loro.
Forse ormai ci siamo abituati a lasciare volontariamente i sogni nel cassetto.
Forse è che siamo prigionieri della vita, della fatalità, di un matto davanti a una scuola di Brindisi o dei sali da bagno che fanno diventare cannibale un uomo.
Forse...tutti questi forse che si piazzano lì davanti a quella voglia di libertà come difensori in un calcio di punizione dal limite dell'area. E tutta quella voglia di superarli, al costo di non segnare e mandare il pallone alle stelle, al costo di non guardarli negli occhi e venire immancabilmente attratti a loro, come calamite sfasate che fanno fin troppo bene il loro lavoro.

Forse la libertà è un calcio di punizione.
Forse è il fischio di un treno.
Forse è sognare, riempire quel cassetto fino a farlo collassare.
Forse è chiedersi, inventare, scrivere, disegnare, rincorrere un cane su al Parco della Valle del Boia.
Forse è amare.

lunedì 21 maggio 2012

Mi 'ndignavi

Questo è uno di quei periodi in cui si può parlare in quantità, e di tante cose. Più che delle cose che accadono, di ciò che esse stesse provocano in mezzo Stivale.
Che a pensarci, cazzarola, a tutto questo trambusto ci dovrebbe essere abituato, tra morti sul lavoro, morti ammazzati di 'ndrangheta, morti di crisi, zanzare che cominciano ad impestare i muri di casa. Eppure no, sempre sgomento, tanto sgomento, sgomento senza soluzione di continuità. Perchè noi Italiani siamo strani. Ci prendiamo e ci stringiamo al petto quell'Italians do it better figlio di chissà quale trovata pubblicitaria ma poi non ci indignamo minimamente se un terremoto rade al suolo mezza Emilia Romagna e il Governo non stanzia più fondi per la ricostruzione, dato che le case dovranno essere coperte da regolare polizza assicurativa con compagnie private di assicurazione.
Mostriamo sgomento, ma un attimo dopo siamo su Facebook a condividere link su Melissa. Perchè ormai il senso della tragedia dell'italiano è diventato questo: accade qualcosa? Metti su un link. Una tua amica viene investita davanti scuola? Che magari non è manco amica tua ma solo qualcuno che tieni tra gli amici così per caso? Và scrivaci "tesoro mio riprenditi presto" sulla bacheca, fujendu, che sennò sembra brutto.
Mostriamo sgomento per Brindisi, e scendiamo in piazza contro la violenza e contro questi quattro cretini che giocano a fare Dio. Ma mi sembra una scena già vista, tante e tante volte, alla quale alla lunga sono diventato insensibile, anzi, quasi repellente. Ho provato dolore, e tanto, per quella ragazza, ma allo stesso momento sono rimasto sdegnato dall'ennesimo esempio di sciacallaggio in piena regola montato attorno alla cosa, dal voler assolutamente riprendere la minima lacrima del padre all'assurdo gesto del TgCom (anche se è roba Mediaset, che ci si può aspettare da gente così ridicola?) di mettere in rete, open-source, foto e filmati di quella ragazza quando era piccola e immagini della sua cameretta, come se ve ne fosse davvero un'utilità sociale da perseguire.
Poi bruciano il Cartella a Reggio Calabria, e quasi nessuno ne parla. Nessuno parla di come quel centro sociale è venuto fuori, di come andava avanti con le proprie mani e del bene che portava ad un territorio notoriamente difficile come il nostro. Bruciato da apparenti fascisti, ma in Calabria la forza che davvero si oppone al miglioramento sappiamo tutti qual'è, quindi non è neanche tanto difficile pensare che si sia trattato di bassa manovalanza 'ndranghetista, anche se il livello di ottusaggine mentale è paragonabile a quello di chi fascista è per moda, di chi lo è solo per potersi sentire autorizzato da un'ideologia così stupida ed insulsa a fare nere nere le persone (cit.). E nessuno presenta sgomento, a Reggio si sono messi subito a lavorare per ricostruirlo, senza fare neanche tanta caciara. Ma nessuno ne parla e ne parlerà a prescindere, perchè in Calabria le cose se non vanno male devono farlo. Per forza, per legge.

Megghiu ma dormimu.

martedì 8 maggio 2012

Salut Gilles!

Mettiamola così: 30 anni fa ci provò di nuovo.
Provò a fare ciò che gli altri non facevano, e a ragione. In fondo aveva poco senso continuare a correre come un matto anche nel giro di rientro, quel giro a cronometri fermi e che ti serve fondamentalmente per prendere e rilassarti un attimo dopo aver cercato come un pazzo il miglior tempo. Un miglior tempo che allo stesso tempo non gli serviva a niente, era l'ultimo giro di quelle stupide e solitare prove del venerdì. Quando mai i tempi delle prove del venerdì hanno contato qualcosa?
Ma lui no, lui doveva fare quell'ultimo giro al massimo. Così, per sfizio, per farla pagare a Pironi. Ostinato come un divertente diavolo sconfitto.
Lui doveva fare tutto al massimo, senza stare a guardare il resto.


Se ne accorse il buon vecchio Enzo, lui sì che di piloti (no, non quelli di oggi, i piloti quelli veri, da Jim Clark a Mario Andretti, da Niki Lauda ad Ayrton Senna) ne capiva.
Veniva dalle motoslitte, Villeneuve (e trovatemi un altro che sia uscito fuori da lì). Catapultato dalle pianure innevate canadesi ai circuiti più o meno tortuosi della Formula 1, dove però subito si fece vedere. Certo, inizialmente tutti quei testacoda, quei tamponamenti, quegli incidenti forse un pò stupidotti non erano il massimo, ma bastò il 1979, quell'assurdità degli ultimi tre giri del Gran Premio di Francia a Dijon, per capire chi si aveva davanti. E poi Montecarlo e Jarama 1981, il traguardo raggiunto a Silverstone con la macchina distrutta o il mezzo giro a Zandvoort 1979 senza una gomma posteriore, altre prove schiaccianti di come lui fosse uno dei pochi la cui bravura andava oltre le possibilità dell'automobile, se non l'unico quasi. Un rapporto fra lui e la sua Ferrari che sembrava essere non di amore, non di stima, sembrava bensì che si trattasse di un'unica entità, che le sue mani sul volante non fossero altro che un'illusione ottica.
"Amare l'Automobile era la prima qualità, la prima dote che io dovevo scoprire nel mio interlocutore prima di assumerlo." Così diceva Enzo, e forse anche per questo Gilles divenne quasi come suo figlio.


Lui ci provava, senza tanti fronzoli. A volte non gli riusciva, come uno scommettitore statisticamente perde più volte rispetto a quante ne vince, a volte invece si. E quando ci riusciva era come assistere ad un miracolo, all'incarnazione del Dio della Velocità, una sorta di apparizione alla Medjugorje. Nessuno lo capiva, nessuno capiva perchè dietro quel viso e quell'atteggiamento di un uomo così mite, così umile, si nascondesse un simile predatore dell'asfalto.
A Zolder, l'8 Maggio 1982, provò di nuovo a volare via. E quella volta ci riuscì, lasciando tutti con il fiato sospeso per un'ultima volta, portando via con sè forse l'ultima Formula 1 fatta di uomini e carburatori nel vero senso della parola. Chissà oggi quanti sorpassi da chiunque inaspettati staranno esaltando il pubblico di lassù, chissà quanti ultimi tre giri a Dijon con Senna sta mettendo su. Chissà quale altra sorpresa ci regalerà domani, l'Aviatore.

"E' bello sapere che siamo delle bestie imperfette,
e un poco del meglio che forse possiamo fare
è baciare le ragazze e poi, e poi tenerle strette,
e poi amare molto Villeneuve,
e imparare a guidare.."


(Villeneuve, Claudio Lolli)


Salut Gilles!

sabato 5 maggio 2012

A' sicaretta

Scrivere per certi versi è come fumare.
Se ti prende la voglia, è difficile cacciartela dalla testa.
E' una voglia che non guarda orologi, date, programmi e sveglie impostate per il giorno dopo.
Ti nasce così dal nulla, senza chiedersi se sia nato prima l'uovo o la gallina.
Scrivere per riscatto, scrivere per memorizzare, scrivere per fotografare, scrivere per dimenticare,
una sorta di anestesia per mandare tutto in corto e mettere le cose in ordine.
Da capo, come prima, meglio di prima.
Non conta come, se su una tastiera di un computer o su una Moleskine riposta sempre nella stessa tasca della tracolla, su un tovagliolo raccattato al bar della stazione di Perugia Sant'Anna o su qualche foglio svolazzante qua e là. Una penna a corredo e siamo apposto. Senza una metrica precisa, senza architettare il tutto, magari solo un pò, ma giusto per mera formalità.
E quindi spegnere i propri pensieri, allontanarli, aprendo quell'agendina alla prima pagina disponibile e gettare giù due cosette così. Stesso effetto di una sigaretta, con la differenza che però puoi farlo anche comodamente seduto su una carrozza di prima classe declassata in composizione al 20342 per Luino, 18.52 da Garibaldi e via di codice 180 fisso da Parabiàgo a Gallarate. Solita divagazione closer-to-railmans, ma altrimenti potrebbe pur sembrare roba scopiazzata da qualche libro dimenticato in qualche biblioteca meneghina.
4-5 minuti, o 30, o 60, o tutto un viaggio. Il tempo di trovare le parole, accumularle e poi via, liberarle come le pecore nei pascoli del Kent, fino ad esaurimento scorte.
E come le pecore nei pascoli del Kent cercare di seguirle, di dare un senso a tutto quel loro muoversi all'impazzata, a quel continuo inseguirsi senza mai un preciso obiettivo, consci del fatto che il punto finale prima o poi arriverà, necessariamente o meno.

You were stolen,
as black across the sun.
Tramonti viterbesi

lunedì 30 aprile 2012

Primo maggio di festa


"Primo maggio di festa oggi nel Vietnam, e forse in tutto il mondo."


Ma anche qui nel varesotto, ben lontani dal Vietnam di Lolli.
Festa del lavoro. Una festività rara, rara perchè già solo a sentire il soggetto che si festeggia scende giù un manipolo di parole da scrivere, da leggere, da dire, da pensare, da abbrustolire sul reostato di un 656.
Festa del Lavoro. In Italia. O meglio, in questa Italia.
Questa Italia di contratti a progetto, di Articoli 18 concepiti bene ma allevati male, di facimu 500 a'misata e simu pari e patti.
Questa Italia di non-contratti, di stage, co-finanziati dalla Regione o meno. Questa Italia di cu avi denti non avi pani e cu avi pani non avi denti, quella stessa Italia di quei ragazzi che vorrebbero passare il resto della propria vita a fare su e giù tra Catanzaro Lido e Catanzaro Città, macinarci i chilometri su quella cremagliera, e invece deve lottare contro non si sa manco cosa per almeno credere di poterci sperare. 
Questa Italia di sogni e lauree da 110 e lode in filosofia gettati indistintamente in un cassetto e rimpuzzoliti dall'odore di olio fritto e rifritto del McDonald's che ti permette di arrivare a fine mese, proprio tu che in quei panini potresti gettarci una vagonata di teorie kafkiane.
Questa Italia di parenti, cugini, nipoti, fratelli, amici di amici per la tangente di X alla sedicesima, questa Italia di latifondisti e forconi tacitati in breve tempo.
Questa Italia, quest'assurda Italia, dei lavoratori FIAT di Pomigliano d'Arco, Melfi e Termini Imerese, delle OMECA di Reggio Calabria, della Veolia di Crotone, della OMSA, della Pertusola di Crotone, dell'ILVA di Taranto, del petrolchimico di Gela, dei cuccettisti della Wagons Lits a Milano Centrale.
Anche di questa Italia degli imprenditori che non pagano il pizzo alle 'ndrine del posto, quest'Italia che ce la fa nonostante tutto, l'Italia delle mamme di Scampìa che riescono a crescere i propri figli lontano dalla camorra, l'Italia della Nazionale di Calcio a Rizzìconi nel campetto confiscato alla 'ndrangheta, l'Italia dei giornalisti che ancora credono nel proprio lavoro e non riescono manculicani a farlo in maniera distorta, l'Italia degli abitanti di Lampedusa e del loro spirito di solidarietà, l'Italia della testardaggine dei Garfagnini e della meticolosità degli Altoatesini, l'Italia del calore dei Calabresi e della diffidenza dei Genovesi, l'Italia di chi migliora le cose senza apporre alcun marchio politico subito appresso. 
Questa Italia che ancora prende i treni per andare da nord a sud, questa Italia che va da nord a sud indistintamente, senza farsi troppi problemi.
Questa Italia che domani forse festeggia un pò se stessa, non tanto perchè Repubblica fondata sul lavoro, ma forse semplicemente è la festa del fare. E noi Italiani, si sa...we do it better.

domenica 22 aprile 2012

Line of time [o timeline chedirsivoglia]

Quando un padre riderà,
soddisfatto del tuo cranio di bambino,
e una madre piangerà
sul mistero della sua maternità.
E la calda intimità col nulla ormai sarà finita,
sarà giunto anche per te,
il tempo della vita.


Quando l'ombra di una donna
leggerà nel tuo viso la paura,
e il suo corpo ti dirà che è notte,
il suo sorriso che è mattina,
quando la vedrai sfiorire come un albero che muore,
sarà giunto anche per te,
il tempo dell'amore.


Quando il sonno resterà
il solo amico che ti salva una giornata,
e vedrai fuggire via dalla tua casa
i resti della gioventù.
E arriverai fino a sperare che un tuo parente muoia,
sarà giunto anche per te,
il tempo della noia.


Quando i vetri di una stanza
resteranno le tue sole passeggiate,
e i figli, e i nipoti,
rideranno delle tue guance scavate.
E per scherzo giurerai di sentirti proprio forte,
sarà giunto anche per te,
il tempo della morte.


Quando dopo tutto questo,
cercherai una ragione od un pretesto,
per convincere qualcuno
che il dolore tu non l'hai vissuto invano.
E ti appagherai del senso che ti darà una religione,
sarà giunto anche per te,
il tempo dell'illusione.


[Titletrack]


mercoledì 18 aprile 2012

Le Matin

Erba e sole lucchese

Forse non valeva la pena raccontarla tutta quella storia.
Tutto il trambusto che uscì fuori quella mattina,
silenzioso come un nodo alla gola che non riesci a sciogliere in nessuna maniera.
E' strano pensare di mattina a quel sorriso,
pensarlo mentre si apre di pari passo con l'alba.
Soppiantare le tenebre, aprire una nuova finestra,
regalare di nuovo la mattina anche a chi magari non la voleva più di tanto,
al caldo delle sue coperte,
al caldo di quel sorriso così lontano e così forte.

E mentre il sole violenta i piccoli interstizi delle persiane allunghi la mano,
cercando qualcosa, qualcosa per fotografare quell'istante,
una macchina fotografica o una carta con una penna.
E' come una forza indefinita che ti prende per mano e cerca di attrarti a sè,
come il sospiro della donna amata,
come il finestrino di un treno durante la corsa.
E non è così facile come sembra resistere a quel richiamo silenzioso,
non è facile sbattere la porta in faccia ad un'altra pagina di storia.
Non è forse sorprendente tutto questo?

[formalmente ispirato da: http://www.youtube.com/watch?v=6Q71FZzZ61o]

venerdì 13 aprile 2012

Di bivi e di scelte

A modo suo è tutto un giochetto. Gestito da chi no, questo proprio non si sa.
Tutto compresso, compattato in file .rar che poi quasi in totale autonomia si autoestraggono senza manco chiederti un parere sulle loro intenzioni, portandoti la vita proprio lì, di fronte a un bivio.
Quei bivi che man mano diventano sempre più grossi: magari cominci scegliendo un pò se a calcio vuoi fare il portiere o l'attaccante, il mediano o l'ala destra, l'allenatore o il presidente. Oppure, che so, se prendere il treno o l'aereo per andare a farti una settimana a Roma.
Finchè poi non comincia a fare sul serio, chiedendoti, spaturnàta di una vita, sempre qualcosa che tu non vorresti cedere, o almeno non adesso.
Finchè un giorno non ti si presenta di nuovo davanti, quella vita, sorridente nel suo frack nuovo di pacca, chiedendoti di nuovo di scegliere.
Il sogno della tua vita o l'amore per una donna. Anzi, per lei, non una a caso, che è tutto un altro discorso.
In mezzo i chilometri, quei maledetti chilometri che ormai non so più se amare oppure odiare, un mezzo futuro che certezze non ne regala, solo intuizioni, stupide e fastidiosissime intuizioni.
Non resta che guardarsi intorno, prendere quel maledetto foglietto e scrivere cosa va bene e cosa no.
Il ticchettìo del tachigrafo Hasler o il suo sorriso.
Le mani su rubinetto del freno e manetta oppure attorno alle sue spalle.
I viaggi in trasferimento o a scoprire mezzo mondo assieme a lei.
Continui a guardarti intorno e la vedi lì, amare quell'altro, quasi non reagire quando gli chiedi di evitare l'ultimo saluto della tua (chissà, magari ultima) partenza. Ti viene da urlare come Kurt Cobain in "Where did you sleep last night", da sputare quei frammenti di quel fantomatico cuore spezzato che tanto piace alle ragazzine. Ti viene davvero da dire, da dire tanto, da abbattere muri e traforare passi del Brennero. Ma lei forse è felice così, ed amare non è forse volere la felicità di una determinata persona? E' questo che ancora oggi vorrei, in fondo, uno dei pochi, pochissimi motivi per cui davvero vale ancora la pena vivere.
Continui a guardarti intorno e ti trovi un biglietto della Calabro in un luogo quanto mai improbabile. Il 3736, sempre lui cazzarola, sempre lui da 3 anni e mezzo, che arriva strombazzando tra i neon della stazione di Crotone, puntuale, perfetto come sempre, riportandoti con fiducia a casa e scomparendo poi tra la nebbia di Torre Melissa. E la chiave della 356, sempre lì in tasca. Trovi la Ferrovia che ti mette queste cose davanti, così complottisticamente.
Forse è un pò come il cappello gettato al vento da Novecento mentre provava a scendere dal Virginia, tutto ha un senso.
E non è facile guardarla negli occhi, Sylvie, attraverso i finestrini di quella macchina. Non sapere se è un mezzo addio o solo un arrivederci, ma sapere che quel sogno, quel piccolo grande sogno, finisce lì. Sapere di volerla ancora abbracciare, volerle dire tutto quello che proprio non riusciva a uscire fuori qualche manciata di minuti prima. Sapere tante cose, e non riuscirne a spiegare manco una.
E poi girarsi di spalle e sentire il 3755 pronto a partire per Roccella, il sogno che andrà avanti, per forza di cose.

Ferrovia sarà.

martedì 10 aprile 2012

360

La luce calda del tramonto non sembra per nulla disturbare il rosso vivo di quei segnali, sornioni e silenziosi alla fine di una comunissima giornata di aprile.
Tutto calmo, tutto tranquillo.
Il volto dell'attesa su quei pochi viaggiatori, l'orologio della signorina seduta alla panchina sotto la campanella che quasi si sente in imbarazzo per quante volte viene consultato, continue occhiate verso lì, verso nord, da dove qualcosa prima o poi dovrà pur arrivare.
Intanto sull'ACEI si accendono quelle due lucette bianche.
"Ma ha bucato lungo la strada?"
"No che è a Corvo signò.."


Poi la lucetta rossa, con l'aria che resta sempre allo stesso modo, impassibile.
Poi improvvisamente scatta quel trillo assordante, e la campanella là fuori comincia a suonare.
Qualche centinaio di metri più in là un bambino starà dicendo alla mamma di essere certo di aver visto "il semaforo del treno cambiare colore", quasi a volerla convincere di aver visto un Ufo.
Quella campanella che col suo trillare imperterrito spezza quegli sguardi, spezza quell'espressione rilassata dei volti e ne imprime una puntualmente tutta diversa. A seconda di cosa significhi quel treno, quella Calabro, per ognuno di quei figuranti del genere umano che aspettano sotto quella tettoia pluridecennale.
Mentre anche un ragazzo arrivato poco prima getta la sigaretta, pestandola come si pesta uno scarafaggio, prendendosi poi un dizionario (alle 7 di sera?) in braccio, la campanella smette il suo canto impazzito.
E un altro rumore si fa avanti, qualcosa che batte continuamente, un tu-tun tu-tun, ferro su ferro.
Poi un piccolo sgorbietto spunta dalla curva a 60 km/h, con due luci quasi gialle ormai ad evidenziare il suo cammino. Quello sgorbietto che paradossalmente sembra acquisire un'espressione quasi rassegnata nel vedere che non può continuare a correre, la sua strada finisce lì e c'è poco da obiettare.
E si ferma così, forse anche un pò mestamente, sparando un pò in su i giri del motore quasi come a fare un grande respiro.
E aspetta, la 360..

Non passa molto che i suoi fanali vengano disposti per il lato dove la ferrovia continua quasi a perdita d'occhio. E verosimilmente potrebbe sentirsi d'improvviso infinitamente contenta.
Il suo Maestro intanto sale in cabina, pronto a prenderne le redini un'altra volta. Il segnale è a via libera, ultimi saluti e battute in stazione prima di tornare in città, lontani da quella tettoia ultradecennale.
Le porte si chiudono, un leggero sfrigolio annuncia l'allentamento dei freni e, dopo un paio di piccoli soffi, strani movimenti che non stai neanche lì a capire, lo strappo.
E la 360 torna a correre. Sputando fumo dalle sue marmitte, facendo gridare i suoi due motori con la grinta di un cavallo rampante. Dopo un pò si innesta la terza marcia, e pian piano si piega sulla destra per scomparire, di nuovo, tra gli alberi.
Un ultimo fischio per salutare un pò tutti, per chissà quale ennesima volta, chissà quale ennesimo arrivederci.
Ciao ciao 360..

domenica 25 marzo 2012

Esportiamo patate (phase 1)

Una domenica fondamentalmente come le altre. Sole, sveglia più o meno alle 10 col TSR di turno che si inchioda davanti casa, i cani che ogni tanto abbaiano a chissà quale ignaro passante in giro per il paesino. Tutti con la tuta Rifle o qualcosa del genere, nomma mi diventano pure originali da ste parti.
Ma poi, piccola variante:
"Dobbiamo andare a un battesimo"
"Di chi?"
Mai sia fai una domanda del genere. Parte così tutta una concatenazione di alberi genealogici che si intrecciano e disintrecciano, manco fossero i boschi Silani o le frasche del Parco dell'Agraria a Catanzaro. E fondamentalmente, nonostante il pathos e la totale assenza di avarizia di dettagli nella spiegazione, alla fine ti vien da pensare "E cu caspita su chissi ccà?"
Ma comunque vabè, sono parenti e pazienza.
Ti accorgi però che qualcosa non va quando arrivi lì a casa dei parenti, a Pozzuolo Martesana (piccolo paesino a est di Milano, non stiamo parlando di una Condofuri o di una San Giovanni in Fiore) e una buona parte sono facce pressochè sconosciute. Tant'è che ti senti un pò -un bel pò- fuoriluogo lì dentro.
Ma sono parenti e pazienza.
E intanto cominci un pò a guardarti in giro, a guardare la faccia puffosa della battezzata, e a sentire un pò di quel marcato tipico accento valdostano che ti par di conoscere così bene.
"Oie jucamu contr'a Vibbonese. Si vincimu passamu u Perugia e jamu capolisti.."
Già. Perchè un catanzarese, ma nu catanzarisu tostu, specie quando è lontano da casa non può fare a meno di parlare del Catanzaro. E quindi via, in costante connessione tramite Smartphone a seguire le vicissitudini dei giallorossi nella città dagli ospedali più efficienti d'Italia (*pernacchia*).
Poi ci si comincia a muovere verso la chiesa. E appena giunti lì, nella piazzetta antistante, già cominci a vedere qualche anima in più. Fortunatamente, c'è da dire, si tratta di due famiglie che andranno a battezzare in contemporanea. Il rischio mega-religious-party classico calabrese è quindi scongiurato.
Ma sono parenti e pazienza.
Quindi si entra in chiesa. Inutile dire che la nostra "fazione" sembra sempre più avere la parvenza di un ritrovo di qualche clan sparso per la Locride. Mentre il parroco, tutto meno che simpatico, spiega manco fosse l'abilitazione di una E464 i passi del battesimo, da una parte della chiesa si è ancora collegati con Vibo a sentire cosa fa la squadra di Ciccio Cozza. Quando si è altamente irriducibili..
Poi si esce, tra racconti sulla vita trascorsa negli ultimi 20 anni e ipotesi di classifica sempre per il Catanzaro, diretti a quello che apparentemente doveva essere un rinfresco.
Apparentemente, perchè alle ore 17.19 in tavola arriva un antipasto di salumi, seguito 20 minuti dopo da un primo di chidi cu i contrucazzi.
E intanto si parla, tra giovani e meno giovani, scoprendo anche di avere di fianco gente originaria di Petilia Policastro che ti chiede se la ferrovia lì ci arriva ancora, od altri che ti chiedono se lavori alla Calabro. E racchiuso in quella cascina, tra quegli accenti marcati e quelle località come Pietragrande, Petilia, Catanzaro, Giovino, Lamezia, Mesoraca che vengono continuamente nominate, per un attimo sembra davvero di non essere lì a pochi chilometri dalla Milano-Verona. Per un attimo sembra quasi che varcando l'uscita tu ti possa trovare davanti l'Ampollino, o il mare di Praialonga.
Poi in effetti esci, guardi i cartelli d'itinerario e vedi paesi come Bussero, Gorgonzola, Melzo, Cassina de'Pecchi, Bergamo. E un pò ti senti, per l'ennesima volta, così disorientato e disadattato lì in mezzo, in quell'autostrada che a Cinisello Balsamo si abbassa entrando in una gola formata da palazzoni e industrie, sotto cartelli stradali grandi quanto una porta da calcio.
Poi ti interroghi un pò, e solo una cosa ti viene da dire:

Megghiu ma dormimu..

mercoledì 29 febbraio 2012

"To hear the softly spoken magic spells"

Ticking away the moments that make up a dull day,
you fritter and waste the hours in an off hand way.
Kicking around on a piece of ground in your home town,
waiting for someone or something to show you the way.

Tired of lying in the sunshine, staying home to watch the rain,
you are young and life is long and there is time to kill today.
And then one day you find ten years have got behind you,
no one told you when to run,
you missed the starting gun.

And you run and you run to catch up with the sun, but it's sinking,
and racing around to come up behind you again.
The sun is the same in the relative way,
but you're older, shorter of breath and one day closer to death.

Every year is getting shorter, never seem to find the time,
plans that either come to naught or half a page of scribbled lines.
Hanging on in quiet desperation as the english way,
the time is gone,
the song is over
thought I'd something more to say.

Home, home again,
I like to be here when I can.
When I come home cold and tired,
it's good to warm my bones beside the fire.

Far away, across the fields, the tolling of the iron bell,
calls the faithfuls to their knees,
to hear the softly spoken magic spells..

Ci sono casi in cui certe canzoni restano lì, non si sa se per tua ignoranza o perchè a loro frega poco di venire a contatto con te e parlarti, dirti qualcosa. Magari poi timidamente, da un Media Player impostato con la riproduzione casuale, sbucano fuori nonostante le casse del pc di casa che funzionano a metà.
"Ma 'on mi para novu su pezzu" ti viene da pensare. Da qualche parte sicuramente l'avrai sentito, dato che comunque sia per gruppi come i Pink Floyd roba del genere, anzi, pazzia del genere è pane quotidiano.
Però pian piano ti prende, un pò timida e un pò prorompente. Poi la ascolti per bene, ti leggi il testo, e capisci come sia davvero una pazzia. L'ennesima pazzia di Waters e soci.
Ogni pazzia ha qualcosa che non possiede un senso logico. E non ha logica il fatto che quel mucchio di parole sono praticamente la sintesi di quei settantordicimila pensieri che ti invadono la testa senza la minima intenzione di andarsene via.
Certo è che comunque è difficile capire se sei tu a rincorrere il tempo o è lui a rincorrere te. Non che cambi molto, tanto alla fine che il pugno ti arrivi sul naso o sui coglioni poco ti cambia, magari il dolore è diverso ma di certo indifferente non ci resti. In qualche modo a un certo punto sei costretto a lasciarlo andare, ma sempre con la promessa di riacciuffarlo in corsa un giorno, più o meno lontano. Effetto fisarmonica, qualche macchinista della Cargo capirà.
Ma in fondo questa canzone è come un grande Swiffer, ti mette tutto in ordine nel giro di 7 minuti. E in mezzo a quella pulizia, in mezzo a quello strano ordine, cominci a non orientarti più, a non sapere più cosa dire, a non sapere più cosa scrivere.
"Thought I'd something more to say"..

Poi ci si lamenta che la gente impazzisce..

mercoledì 22 febbraio 2012

Missing

Chi l'ha mai detto che perdersi non è cosa buona e giusta?
Magari chi possiede una specifica scheda treno che stabilisce a bacchetta gli orari della propria vita, dove la prossima coincidenza, che sia essa quella col regionale per Luìno o l'inizio delle ore con le file chilometriche fisse alla Coop, non è ammesso perderla.
Oggi ad esempio, dopo aver sbrigato una veloce commissione in Via Turati (si, ero proprio alla sede del Milan se tu, tifoso milanista, te lo stessi chiedendo) ed accortomi del biglietto che improvvisamente veniva letto come scaduto dai tornelli della Metropolitana (ma 'on balìa 90 minuti cuggì?), mi passò la bella idea di arrivare in Garibaldi a piedi, senza riferimento alcuno.
E così fu che, del tutto a zonzo, comincio a girare cercando di scovare la punta del grattacielo delle Varesine, quel mastodonte che fa sentire la stazione Garibaldi così piccola.
Via Marina, letteralmente invasa da muscolosissime Mercedes nere. Tutte nere, tutte con quell'aria cattiva e seriosa che solo il miglior Bernardo Provenzano potrebbe permettersi. E poi scrutare, da buon paisanu, tra i finestrini di quei bolidi che chissà quanto carburante succhieranno via dalla Bianchina di Fantozzi.
Cercando di capire minimamente dove si trovasse quella dannata Via Marina, ecco spuntare un parco. Parco Sempione? Oddio, torna a Cadorna 'rrivai?
Invece no, Giardini di Porta Venezia. Già solo quel "Porta Venezia" dona un pò di tranquillità sul capire dove si è e dove non si è.
Però quel parco, ecco, è l'ennesimo spaccato profondo di quella città. Forse è un pò un controsenso in sè, un parco così vasto e quel rumore di automobili, quel rumore di città che preme così tanto nelle orecchie. Come un'enorme cuffia, come quell'enorme cappa che cinge la città tra i limiti della sua tariffa urbana.
I bambini che giocano, i cani che si rincorrono, qualche soggetto in perfetta tenuta corsaiola a mangiarsi la polvere di quelle stradine sterrate. Poi qualche ruscello artificiale a fare da cornice a ragazze prese in braccio dai propri compagni, a parlare di chissà quali progetti in un range spaziante dal matrimonio a quale discoteca scegliere il sabato sera per la scopatina di turno.
Un angolo di umanità, finalmente verrebbe da dire. Tanto che viene voglia di sedersi, mollare la borsa su una panchina o sulla ghiaia e boh, mettersi nelle orecchie Waiting Phase Two a palla, magari con un quaderno e una penna tra le mani a scrivere qualche solita cazzata, a scattare fotografie senza la reflex.
Poi ci pensi, e sei anche tu tra quei fessi che hanno la Scheda Treno in testa. Alle 18.52 parte il Luino, meglio non perderlo.
Almeno per questa volta..



venerdì 17 febbraio 2012

Antologia di Corso Sempione

Alle 7.30 sveglia.
Sciacquata, cambio vestiti, eventualmente li vai a riporre anche tra la roba da lavare.
7.58 esci di casa. Un saluto alla zia, una carezza ai cani.
8.01 il Capostazione (che non si chiama più così da queste parti, ma pazienza) apre il segnale al 25011.
8.03 arriva, mentre tu sei già più avanti "dove solitamente salgono in pochi, almeno viaggio tranquillo".
Dormi, mentre quel treno si riempie sempre più. Gallarate, Busto Arsizio, Legnano, Canegrate, Parabiago, Vanzago, Rho, Rho Fiera.
Un'escalation di alberi vestiti di brina e marciapiedi affollati di gente fumante quasi quanto l'ILVA in un giorno di pioggia.
I discorsi sulla festa questa sera dalla Susy, lo stucchevole modo di parlare del legnanese che non ce la fa proprio a non terminare ogni mezza frase dicendo "Amore" a sua moglie, quell'Area C che proprio non gli va giù alla signora in pelliccia e profumo firmato e controfirmato, come i contratti d'appalto che l'uomo in giacca e cravatta qui al mio fianco si vedrà passare sott'occhio ogni giorno ai piani alti di Piazzale Cordusio, là dove da una porta ti puoi veder sbucare prima il meridionale della situazione a chiedere il mutuo per la casa a Garbagnate e poi Galliani a offrire l'ennesimo inciucio in cambio di una semplice sponsorizzazione.

Poi comincia Milano. Anzi, Milano è già cominciata quando ci siamo fermati a Gallarate.
Milano è un modo di essere, potremmo riassumerla così. E' schematica, come le sue linee suburbane, fredda come i numeri di cui, ovviamente, è strapiena. Milano devi viverla schematica, sennò ti senti ancora più fuoriluogo di quanto ci si possa sentire di base. Perchè Milano non è umana, no, Milano è Milanese, il che è tutto un concetto un pò particolare che ancora oggi sto cercando di afferrare, forse invano.
Poi arrivi lì, in Garibaldi. Fiumi, frotte di persone che calpestano come formiche quei pavimenti, silenziose, inermi, sottomesse. A cosa, nessuno lo sa.
Scendi, ma cammini lentamente. Vuoi capire cosa stia succedendo.
Perchè scappate? Chi vi sta minacciando di morte? Chi vi fa paura?
E quel grattacielo lì davanti, che quasi sembra abbracciarti e poi fagocitarti.
"E io ieri mattina ero a Catanzaro" pensi, con quel nodo alla gola classico dello stupido meridionale che quando pensa alla propria casa comincia a voler dimenarsi e maledire mezzo mondo.


Si perchè pensi a quella volta in cui, salito sul 3740 a Catanzaro Lido, hai visto i 4 pendolari di fianco a te, quasi un pò come gli Zingari Felici, usare le loro 24 ore come tavolino, estrarre le carte e farsi una partitina a tressette, con gli altri viaggiatori che -ormai forse abituati a ciò- cominciano persino a fare il tifo. Poi prendi un Milano - Luino, ti ritrovi stipato nel vestibolo di una carrozza con altre 30 persone e non senti volare una mosca, tutti con gli occhi fissi sui loro tablet. Chi non ne è munito, a guardare davanti a sè come perso in chissà quale sistematico mondo.
Non saluti nessuno perchè non ne senti neanche l'esigenza di farlo. E' questa Milano: ritagliarti il tuo spazio, prenderti il tuo pezzo di vita e gestirtelo da tè. Con metodo, in modo schematico, appunto. Guai a sgarrare.

lunedì 13 febbraio 2012

356

La lentezza con cui arriva l'autunno è proverbiale. Si fa accorgere del suo arrivo solo guardando un pò quanti altri abiti hai messo sotto la solita felpa dei Green Day. I jeans li mettevi anche con i 45° in spiaggia, figurati un pò in una sera d'autunno, con un vento non propriamente gelido ma quasi, in quella città che così bene ormai hai imparato a conoscere.
E stai lì, in attesa del treno. L'ennesimo, il solito, e sempre sullo stesso tragitto. Una decina di chilometri a salire, altrettanti a scendere. Così, per passare un pomeriggio.
Un tragitto sempre uguale, appunto. Ormai ricordi anche dove e quante sono le giunzioni, quanti "tu-tu tu-tun" fa quel treno, anzi, quel trenino. Ormai sembra che la tua vita scorra sempre da lì, tanto che c'è chi inizia a credere che tu lì persino ci lavori (magar'a maronn).
Era fondamentalmente un giorno come un altro, assieme a quell'altro dipendente-non-dipendente di Francesco.
E fondamentalmente, come un giorno come un altro, si salì su quel treno, tra convenevoli pacche sulle spalle e solite affermazioni su novità di ferrovie di chissà quale altro mondo.

Dopo un pò il macchinaio sputò fuori una domanda la cui risposta volò fuori in un modo strabiliante, tutto il contrario di quell'autunno.
"Tu l'hai mai guidata 'na cosa di queste?"
"No, mai"
"Vabò, passiamo la stazione e vediamo che mi sai fare"
Mancava un minuto all'arrivo in quella determinata stazione, ma sembrò un viaggio coast-to-coast sull'ICN1910. E va bene che qualche altra volta, di straforo, avevi potuto provare a tenere tra le mani un locomotore, E636 o D214 che sia, guardando con la coda dell'occhio lo sguardo divertito del macchinista che molto probabilmente pensava "Io lo odio così tanto sto lavoro e questo pare che sta in paradiso, che gente strana 'sti appassionati". Ma quella volta tra le mani stavi per aver non un treno qualunque, stavi per avere QUEL treno, quello di cui ne parlavi con fierezza con chiunque, quello che era diventato, nonostante il suo essere un "mezzo camioncino", quasi un simbolo. Per te, per la tua ferrovia, per quelle ferrovie.

Poi, del tutto all'improvviso, "Tieni, siediti. Ti dico io cosa fare"
Un chilometro scarso senza neanche concepire cosa si stesse facendo, giusto una carezza a quel cavallo di ferro di cui, solo poco dopo, ti sei reso conto di averne tenuto le redini, anche se per pochi attimi.
Il che è una di quelle cose, un pò come gli Esami di Stato, che ti rendi conto di quanto importanti possono essere solo minuti e minuti dopo che hanno avuto termine. Indescrivibile, per quanto fuggiasco sia stato.

Sta di fatto che da quel giorno di tempo ne è passato. E siamo arrivati a sabato scorso, 11 Febbraio 2012, in una bagnatissima Lamezia Terme Centrale, in attesa del treno per tornare su a Milano. Una vita da autentico terrone, questa caratterizzata dal continuo via-vai dalla natìa terra, minimo comun denominatore degli ultimi 6 mesi. Un via-vai che, però, non prescinde dal solito giretto su e giù su quella linea ogni volta che si è in terra calabra. Questa volta saltò, e non certo per ragioni poco valide. Tuttavia ci volle poco per veder indicata sui tabelloni la soppressione dell'Intercity 724 che mi avrebbe condotto a Roma. Oltre ai comuni smadonnamenti per 50 euro buttati all'aria, me ne tornai mestamente a Catanzaro Lido, dove per "ingannare il tempo" andai di nuovo lì, in quella stazione. E quindi, dopo essermi messo a scartabellare tra i turni dei capitreno e a dare un'occhiata ai fogli di corsa per il giorno dopo, quasi istintivamente andai a prendere di nuovo quel trenino (che tanto trenino adesso non è più), ed anche stavolta "per passare il tempo".

Tornando a casa la sera, su quel Regionale 3736 che mi ha visto praticamente crescere negli ultimi 4 anni, pensai "Ma forse è perchè non mi feci il giretto che non sono potuto partire?". Sembrava destino, sembrava che non dovessi lasciare qualcosa in sospeso (mi accorsi solo dopo di non aver neanche abbracciato Silvia, condizione che mi resi necessaria per tornare a Milano dopo tutto quello che era successo).
Arrivai a casa, posai le valigie e, nell'aspettare che fosse pronto in tavola, mi misi a guardare un pò nello scatolino con vari piccoli oggetti ferroviari raccolti qua e là.
Tra loro c'era una chiave di banco, trovata per terra vicino una stazione. La presi in mano, ricordando quella giornata lì. Poi guardai bene, e su di un fianco intravidi un'incisione. Guardai meglio, ed era un numero, il numero dell'automotrice a cui apparteneva quella chiave.

356.

Era lei. Se non è questo il Destino..