martedì 7 febbraio 2017

Mi pariva ca muriva e ssu jornu u 'nnu vidiva

Nella mia città c'è un piccolo stadio incastrato tra una collina ed un ospedale di cinque o sei piani, uno di quegli ospedali dove gli spigoli dei gradini delle scale sono ormai consumati e arrotondati, dove nell'ascensore c'è quell'odore plasticoso del cibo di mensa, a tutte le ore del giorno, dove i colori sono unti e sdruciti, i pannelli di plexiglass scheggiati, dove la macchinetta del caffè ti tira fuori più un bicchiere di acqua lorda che altro, dove tutti dicono che si va a morire, e poi ci salvano la gente. 'E 'ncuna manera.
La mia città ha diversi primati, quello di avere un ospedale come tribuna del proprio stadio forse è uno di questi. Come la vuoi chiamare? Tribuna Est secondaria? Curva Prontosoccorso? Mettiamo le finestre dell'ospedale (almeno dal terzo piano in su, ca sinnò 'un si vida nenta) nel conteggio degli spettatori a partita, e vedi che qualche numero più alto lo raggiungiamo.


Ma in fondo, cosa se ne fa una squadra come quella della mia città dei grandi numeri, delle grandi presenze? Una squadra che ha sempre navigato nelle tranquille ma torbide acque dei campionati regionali e interregionali, nessun grande nome, il calcio che conta si giocava sessantasei chilometri a sud. Una squadra che pian piano aveva risalito la china ritagliandosi uno spazietto, un ruolo nel professionismo, a cavallo tra la Serie C e la Serie B conquistata col nuovo millennio.
Ecco, la Serie B. Per la squadra della mia città è divenuta la categoria giusta in cui stare, con il suo buon posticino di metà classifica ed il solito mantra pre-campionato: "Puntare alla salvezza", magari togliersi qualche soddisfazione e, soprattutto, lanciare qualche astro nascente. Florenzi? Bernardeschi? Mirante? Konko? Ne dico altri? Lassa fricare..
Era il nostro ruolo e ci andava benissimo. Eravamo, siamo, in fondo a tutte le classifiche di questo mondo, però almeno nel pallone siamo una bella realtà, apprezzata e che percorre la sua onesta strada.

"Ma tu te lo immagini se andiamo in Serie A?"
"Seh...mo daveru..."
"Ma te lo immagini cosa succede?"
"Me lo immagino si."

Ci immaginavamo, parlandone con lei, che forse quel sogno, quel miraggio, poteva essere il punto di svolta per la nostra città. Ci immaginavamo, il giorno della promozione, come il giorno X, il giorno in cui sarebbe finalmente uscito fuori dall'animo dei nostri paesani l'orgoglio, il senso di appartenenza, la voglia di riscatto, portare anche la città ad una promozione per i più insperata, irrealizzabile.
Ma appunto, immaginavamo, ne parlavamo con gli occhi al cielo, lucidi e rassegnati, con l'amaro in bocca e quel peso interiore dato dall'impotenza. E sapevamo, appunto, che erano due cose difficili, anzi impossibili. Un asino che vola e ti risolve in contemporanea un'equazione di secondo grado sarebbe stato più credibile, credetemi.

Capitò che durante l'estate del 2015 Massimo Drago, l'allenatore, paesano nostro, andò via. Ci aveva salvato tirandoci per i capelli dall'ennesima retrocessione in C1 e ci aveva portato per la prima volta a sentire forte, chiaro, saporito l'odore della Serie A. Playoff. Playoff promozione per la Serie A, ragazzi miei, che fa i brividi solo a sentirlo. Non ci sembrava vero. Ed era vero, come erano veri i tre gol che il Bari ci rifilò, com'erano vere le tre birre -una per ogni gol- che Roberto, mio amico e collega tifoso sfegatato del Bari, mi portò la sera al cambio turno per consolarmi.


Un giorno di quell'estate arriva la notizia che Ivan Juric, croato di Spalato, è tornato, ed è tornato a rimpiazzare Drago. Ivan quel campo incastrato tra Via Cutro e l'ospedale (che nel frattempo veniva ritinteggiato all'esterno) lo conosce bene, lo ha calcato per diversi anni entrando nella memoria dei tifosi della squadra della mia città come uno dei migliori centrocampisti mai scesi in campo all'ombra dell'ospedale. Faccia e modi da burbero, sigarette e rollate a manetta, una stagione mediocre col Mantova alle spalle.
Ma siamo sicuri che ci salviamo con lui? Vabbè, se lo dice Ursino...
Ah, Ursino. Ursino è uno che di calcio ne capisce, 'uttana se ne capisce. Direttore sportivo della mia squadra fin dalle origini, uno che, nella scalata di categoria che la squadra ha realizzato, ne è decisamente l'appiglio, il corrimano, il martellino che si conficca nella roccia.
Arriva anche qualche altro giocatore, soliti arrivi in prestito dalle squadre più titolate: arriva, anzi viene confermato, Federico Ricci dalla Roma, Eloge Yao dall'Inter, Ante Budimir dal St.Pauli.
Budimir? St.Pauli? Ma che è sto St.Pauli? Vabbè, se lo dice Ursino...



Morale della favola: l'inizio di quella stagione fu costellato più di "E chistu cu cazz'è?" che di "Bonu, st'annu 'ndi salvamu", in linea col pessimismo cosmico preinstallato nel sistema operativo del crotonese medio. 
Sembrava un'annata come le altre, sempre con lo stesso sole, con le solite transenne alla rotonda della nave, con la stessa erba a volte poco regolare. Cambiava il colore dell'ospedale, che iniziava ad essere azzurrino.
Però la squadra giocava bene, gli ammalati affacciati al terzo, quarto e quinto piano si divertivano a vedere quel gioco spregiudicato e offensivo lì tra le quattro tribune dell'Ezio Scida. A un certo punto, come avvenne per il portiere Cordaz (non si capiva se era italiano o austriaco, ma era 'na bestia), uno degli effetti del fallimento del Parma un paio d'anni prima, fu che arrivò lì in via Cutro un tale Palladino. Uno che, qualche anno prima, era stato etichettato come il Cristiano Ronaldo italiano. Uno che con la palla ci fa quasi ciò che vuole, uno da Serie A insomma, per dirla in altri termini.

"Ma Rafelu 'ni vo far jiri in Serie A?"
"Vabbè, se lo dice Ursino..."
"No, tanto non ci andremo. Al massimo jocamu i playoff"

Avvenne che quella squadra iniziò a giocare bene, cazzarola se iniziò a giocare bene. Ragà, qui altro che playo...STATT CITT'! Ca si facimu i playoff è assai.
La squadra della mia città non ha mai giocato in palcoscenici particolarmente prestigiosi, forse il massimo del prestigio è stato il Delle Alpi di Torino (contro il Torino però), Marassi o il Dall'Ara. Na roba tipo, che ne so, San Siro o l'Olimpico mai.
E avvenne pure che capitammo, quasi per caso, a giocare a San Siro, contro il Milan, Coppa Italia.
Cinque anni prima giocavamo con il Lanciano, con il Martina, giocavamo con 200-300 persone allo stadio, giocavamo con una spada di Damocle che non capivamo cosa fosse, ma c'era.
Ora il nome della mia città compariva sui tabelloni di San Siro, il nome della mia città compariva grande ai piedi della curva. Era già bello, incredibile, così. Il punteggio? Tantu pigghiamu 'na cazz i scoppula...
E invece no. A scoppula 'a stava pigghiannu u Milan. Non vedevo la mia squadra dal vivo da un paio d'anni, e non mi sembrava lei, non mi sembrava la mia piccola squadra di provincia a mettere in difficoltà il Milan, a coglierlo di sorpresa, impreparato.
E non mi sembrò vero, non ci credetti per non so quanto tempo, quando vidi quel croato longilineo, si, quello che era arrivato dal St.Pauli (chi?), calciare e mettere la palla alle spalle di Abbiati.
Urlo. Addio voce.



"Oi mà"
"Che peccato perdere così..."
"Perso? C'am pers? Ch'amu fattu u culu paru paru. Simu morti ari supplementari, col Milan. L'ha capitu? Cu u Milan!"
"Essì, na bella partita"
"St'annu ni 'ndi jamu in Serie A. Non l'ho detto, ma ni 'ndi jamu"
"Mo non esagerare"
"Io non l'ho detto. Ma ci jamu"

Poteva mai essere vero? Magari sto sognando. Ma non svegliatemi da questo sogno. Non svegliateci da questo sogno...


E non ci svegliammo più. La squadra non mollava, non mollava un colpo, sempre lì sopra a giocarsela col Cagliari. "Non succede, ma se succede", scriveva sempre Laura.
E sembrava che il miracolo stesse avvenendo, sembrava che tutto quello che ci eravamo detti con lei, un giorno di tanti anni fa seduti ad una panchina della villa comunale (credo) si stesse avverando. Giravi per la città e le facce cominciavano ad essere diverse, cominciavi a vedere più di qualche sorriso sulla bocca della gente, non si parlava d'altro e tutto si colorava di rossoblu. Anche il piccolo stadio sotto all'ospedale venne rimaneggiato e rimesso a nuovo, finalmente il cielo si colorava di speranza. Era sempre più blu, il cielo è sempre più blu, tantatantatatatantatatatatantatatantatatatantatantatan...



Avvenne che iniziammo Aprile e la città non era più la stessa. In tutte le strade, in tutti i vicoli, tutto rossoblu, striscioni e bandiere. Crotone non era ultima, per una volta Crotone, quella che finora ho chiamato la mia città, era un nome che potevi urlare con orgoglio. La scintilla era scattata, il pedale della frizione abbassato per cambiare finalmente marcia. La città era bellissima come non mai, e il 22 Aprile, alle ore 22 e 22, tre fischi dati all'interno dello stadio Braglia di Modena la fecero esplodere. Io, a Piacenza, stavo per terminare servizio e transitavo per il binario 11. Esplosi, abbracciai Jacopo, il mio collega, e cercai di rendermi conto.
Crotone in Serie A. No, non a PES, non a Fifa, davvero. Crotone in Serie A davvero.



E poi? E poi quel quadro candido che si era creato ha pian piano cominciato a presentare le prime ombre, i primi buchi. Quel 22 aprile ci siamo svegliati dal sogno, e per direttissima ci siamo scontrati con la realtà, ci siamo scontrati con noi stessi, con la memoria corta, accorciata da quel pessimismo cosmico di cui sopra. Iniziammo a lamentarci di non essere arrivati primi (vincere il campionato di B, a differenza di Reggina e Catanzaro, come se cambiasse qualcosa), ci ritrovammo senza uno stadio, o meglio con uno stadio rappezzato ed aperto a stagione già ampiamente iniziata. Situazioni paradossali che hanno fatto tornare in voga la frase "Sul' a Cutrone sti cosi".
Ci siamo ritrovati in Serie A con un ambiente pesante come quello di una zona retrocessione in Serie B, dimenticandoci di dove siamo, di dov'eravamo, da dove eravamo partiti, e cosa ci dicevamo lo scorso anno. E' andata male, non è ancora finita ma bene non è andata, una campagna acquisti con molte ombre e poche, pochissime luci, Juric, Budimir e Palladino che oggi sono tra le due sponde calcistiche di Genova, una squadra che non riesce proprio a ingranare, incapace di lottare se non a sprazzi, a partite, a come gli gira gli gira. Non è il Crotone di Juric, non è lo stesso Crotone, ma neanche un po'.
Colpe? Non lo so, non sono così esperto da giudicare. Si poteva fare di più? Non lo so. Poteva andare meglio? Si, forse si, ma alla fine va bene così. Abbiamo avuto per anni un posto e quel posto sta sempre lì, male che va ci torniamo e potremmo raccontare di aver visto una Juventus tra le più forti di sempre giocare laddove, solo pochi anni prima, cercavamo di tenere a debita distanza la Serie C.



Ecco, ora forse avete capito perchè tifo Crotone, perchè per i colori rossoblu l'amore è viscerale, intrinseco, indivisibile ed immutabile nel tempo. Forse, capito questo, capirete anche come vedo il calcio, sicuramente in maniera stupida, ingenua, perchè anche io lo so, lo immagino, che alla fine è tutto business, è una enorme macchina da soldi che oggi non da più spazio alle favole, quelle vere e genuine. Non è più un gioco, un semplice gioco.
Io vedevo, vedo, un semplice gioco non come causa, ma piuttosto come volano per la rinascita di un territorio. Perchè il calcio può portare gioia, la gioia ottimismo, l'ottimismo sviluppo. Essere di Serie A nel calcio conta poco, conta nulla, se si è ancora inqualificabili in tutto il resto, se la passività e la rassegnazione sono il filo conduttore del pensiero in prospettiva della mia gente, se le speranze di una città ricadono quasi solo su quelle (poche, purtroppo) persone che non si rassegnano e vanno avanti, giorno dopo giorno, per le strade di Crotone.
Il calcio non è bastato, era ovvio che non sarebbe bastato, ma è stato bello crederci, sarà ancor più bello continuare a farlo, perchè quest'annata mi ha dimostrato che è possibile, che non è utopia, che i miei paesani sono davvero capaci di fare cose fuori dall'ordinario.

Fino alla fine, forza Crotone.

giovedì 2 febbraio 2017

Bologna 02.34

Prima o poi si arriverá a Bologna,
che sia da Mestre, Treviso o Piacenza,
sempre li, in mezzo alla strada.
A Bologna non ti bagni,
a Bologna ci sono i portici,
a Bologna ti siedi sotto gli alberi di piazza Minghetti,
e c'è la Funivia per il gelato.
Bologna è quadrata,
Bologna è rossa,
Bologna è centrale.
Bologna sta lí, racchiude le strade lastricate su cui viaggiano pagine della propria storia, strade stampate nella memoria, percorsi tattili per anime sordocieche, odore di fritto e di scene giá vissute, di gocce di rugiada posate su un mazzo di fiori mai comprato, scale di Piazza Grande, militari dell'esercito, un cane bianco che va a farsi accarezzare dai turisti, un pub ed una partita di rugby.
Bologna sta entro la linea gialla, io oltre. Non la oltrepasserò, non sono piú capace di farlo.
Ed è giá Pianoro, è giá Prato, è giá Rifredi e Campo Marte.
E sará Bologna, chissá

venerdì 9 dicembre 2016

Ij teng 'o mare

Chi tene 'o mare,
s'accorge 'e tutt chell' ca succere.
Po' sta luntano

e te fa sentì
comm coce...




Chi tene 'o mare,
'o ssaje,
porta 'na croce.


Chi tene 'o mare
cammina ca 'a vocca salata...



Chi tene 'o mare
o 'ssape ca
è fess e cuntento...




Chi tene 'o mare
'o ssaje
nun tene niente...




(Chi tene 'o mare - Pino Daniele)

giovedì 22 settembre 2016

Dio salvi la Reggina

Partivamo di prima mattina, di domenica, quando l'aria ha quel sapore di vaniglia e le uniche auto che incroci sono quelle di chi torna dalla discoteca con la camicia bianca sudata e strappata. Montegiordano, Roseto, Trebisacce, mentre si facevano le 9 e il sole non dava piú fastidio agli occhi. Sibari, Spezzano, l'autostrada, la sosta all'autogrill e i palazzoni di quella Cosenza che mi sembrava chissá che metropoli, poi lo slalom fino al mare che spuntava all'improvviso poco dopo San Mango, Lamezia, Pizzo e quel ponte in curva a strapiombo sul mare, le due ferrovie che poco prima quasi si incrociano, il porto di Vibo e poi le colline fino a Rosarno, gli agrumeti, la vibrazione interiore della distanza che si affievolisce. L'uscita di Palmi, l'indicazione per Seminara, le nostre radici che cercano di fare presa nel paesino che sorvoliamo con l'autostrada poco dopo, e poi lo Sfalassà, e il Pilone, la Sicilia e, un attimo sotto, Villa. L'uscita a Gallico, in piazza Posta per andare a pranzo 'ddu u ziu Gilbertu, dai cugini Nino, Giusy e Sara, magari ci sono pure le zie, alias i' signurini (se mi leggete ogni tanto capirete).
"Belardi e Bonazzoli". Rispondevo cosí, in ordine di importanza, quando mi chiedevano chi fossero i miei preferiti. Poi Tedesco, i due Ciccio, Cozza e Modesto (che, anni dopo, mi regalerá la gioia calcistica piú grande), Mozart e Paredes, piú avanti Biondini e Missiroli.
All'una e mezza andavamo via, "Dio salvi la Reggina" esclamava sorridente zio, sfruttando la mia scarsa resistenza al ridere ai piú scontati dei giochi di parole, mentre ci accompagnava al cancello di casa.
Del pezzo di autostrada tra Gallico e Reggio ricordo la Panda cabriolet con una enorme bandiera amaranto che usciva fuori dal tettuccio, l'Ape con due persone con la maglia di Nakamura sul cassone, le buche, il profumo di mare, l'imponenza dell'Etna li in fondo, la misteriositá della Sicilia li accanto.

La curva Sud in un Reggina-Roma - foto dal web
Sfilavamo per il lungomare, poi per qualche centinaio di metri lungo l'argine del Calopinace, quindi a destra sul lungo viale che porta all'aeroporto, trovando sempre posto in un enorme piazzale di fronte ad un palasport. Si vedeva giá la copertura della tribuna centrale svettare sopra le case, ed un primo brivido scendeva giú per la schiena. Un brivido, a me che da piccolo il calcio manco piaceva, io che lo consideravo uno sport come gli altri. Consideravo, appunto.
Le bancarelle, l'odore melmoso dei paninari, "dduj sciarpi deci euru", la via che portava allo stadio piena zeppa di gente, "papà i biglietti li hai?", l'ombra di dubbio, il sole dell'entusiasmo.
Arrivavamo nel piazzale e gli angoli non coperti dalle tribune lasciavano passare suoni e colori che ti attraevano come una calamita, ti mettevano una fretta cagna, 'iamu, trasimu. A volte andando verso gli ingressi incrociavamo i due bus di Tripodi che portavano le squadre, fermandoci in attesa che scendessero i giocatori, quegli esseri sovrumani che sembrava esistessero solo in televisione. Ricordo i gemelli Filippini che mi passarono a pochi metri, lo sguardo da ebete di Nakamura e quello manesco di Soviero, Mazzarri ca on sapiva mancu cu era, il sigaro consumato di Lillo Foti, Luciano Zauri di cui avevo mille figurine.

Shunsuke Nakamura
Ed una volta passati i cancelli (i tornelli erano robe da aeroporto ancora) e salite le scale, il campo, il campo e quell'aria tesa di incertezza che lo ricopriva. Prendevamo posto in tribuna, anzi una volta in curva, due nei distinti (Juve 2004 e, soprattutto, quell'indimenticabile 27 Maggio 2007 contro il Milan), seguivamo il riscaldamento cercando di capire chi dei nostri avrebbe giocato o di riconoscere al volo i campioni della squadra avversaria. E a pensarci...Ibrahimovic, Del Piero, Cafu, Ronaldo, Gattuso, forse pure Rivaldo, Cannavaro, Zanetti, tutti li su quel campo che sembrava dovesse ospitarli in eterno. 
Lo racconterò a mio figlio, semmai un giorno dovesse interessargli, che suo padre, ancor prima di perdere testa e voce per quel gol di Budimir a San Siro, ha visto Ronaldo giocare a Reggio Calabria, col mare dello Stretto di sfondo. Si, quel Ronaldo, quello li, forse il piú forte di tutti, lo ha visto con i suoi occhi fare un doppio passo su Aronica e scappare sulla fascia destra, anche quando ormai era solo una brutta e riccioluta copia dell'originale.

Salvatore Aronica, Ronaldo e Andrea Campagnolo in Reggina-Milan - Foto dal web
Juri Cannarsa osserva Zlatan Ibrahimovic in rovesciata durante un Reggina-Juventus - Foto dal web
Sono passati nove anni da quella partita, ci sono voluti un incrocio ed una strada sbagliata per riportarmi davanti a quello stadio, per riportarmi davanti agli occhi alcuni di quei momenti che il tempo non è riuscito e non riuscirá a cancellare, per riportarmi davanti al cuore la nostalgia di quell'aurea magica che copriva quelle quattro tribune strette tra il mare e l'Aspromonte. 
Non ho potuto fare a meno di accostare e scendere. Lo stadio quella mattina era aperto, la Reggina appena tornata tra i professionisti si stava allenando sotto un sole cocente. Sarei entrato volentieri, anche solo per sedermi cinque minuti su quella tribuna, ma senza tempo a disposizione, giá appoggiare le mani a quelle inferriate rese fresche dall'ombra dei salici è stata una bella riconciliazione.

Il Granillo, quella mattina di settembre..
Ma tutto questo è passato, tutto questo è nostalgia, bellissima nostalgia.
E ora?
E ora...
tan tata tananana tan tata tanana tan tata tananana tan tata...o meglio: 


mercoledì 14 settembre 2016

Vos et ipsam civitatem benedicimus

U vulissa capire nu sicilianu quannu 'nchiana supra u ponti, s'assitta, u ventu 'nci sparpaglìa i capiddi, u sali 'nci 'mpacchia, l'adduri d'a nafta ca saglia 'ppi tuttu u traghettu.

U vulissa vidiri pi intra, quannu chiudunu 'a celata e u traghettu comincia a ssi moviri, quannu Messina passa davanti all'occhi, lenta, comu quannu ti strappi i pili d'u vrazzu cu nu cerottu e u tiri chianu chianu, tantu chianu ca u duluri u senti parti pi parti, vota pe vota, pilu ppi pilu.

Ti vulissa vidiri, anzi ti vitti, cumpari sicilianu, quannu passi 'a Madonnina e trasi pe mmari.
"Vos et ipsam civitatem benedicimus", pi ttia cchi rappresenta? Pi ttia ca, cu na manu subba a balaustra, ripeti in silenzio chiri paroli mentri na goccia d'acqua ti scinna i l'occhi e si jetta a mari.

Cumpari sicilianu, amicu meu, ma iu sulu stràmmu a vidiri chira madonnina? Cumpà, ma com'è sapiri ca chira statua, e sulu chira statua, e sulu chiru mari, chiru pezzareddru i mari, ti dicia ca a terra tò finiscia? Ca subba a spiaggia ca vidi ddrocu avanti, a Villa, sì già nu foresteru?
Cioè, 'on ti pò capitari com'e mmia i essiri distrattu e 'on vidiri o cartellu a Nova Siri, fine Calabria inizio Basilicata, o non ti po' capitari ca è scuru e, da che partisti co' trenu da Scalea ti trovi a na vota a Sapri. Ecco, compà, 'on poi dire "Ormai siamo passati", 'on poi tirarti a' ceretta ccussì, zac, tutta a na vota, tu te l'ha soffriri a forza chiru confini, chiru mari e chiru ventu t'annu accultellari a forza. O dicu strunzati?


Vos et ipsam migrantium benedicimus.


martedì 12 luglio 2016

Blocco telefonico

Che la ferrovia rappresenti, per molti versi, una metafora della vita ne sono sempre stato convinto. Ne ho sempre letto così i suoi colori, le sue forme, le diramazioni e le scalate impossibili sui costoni delle montagne, le sue simmetrie e le sue geometrie.
La ferrovia è un mondo a se stante, oltre la linea gialla sono altre le regole da rispettare, altre le direzioni in cui guardare, altri i limiti da osservare.
E l'uomo, in ferrovia, è un limite. Sì, il suo stesso creatore è il limite della ferrovia, è la fragilità umana uno dei pericoli maggiori che corrono sui binari.
Penso ai due rettilinei che spaccano in due quel territorio disseminato di ulivi, ai muretti a secco che dividono la ferrovia dai terreni circostanti, alle cicale che cantano al sole bollente di un martedì di luglio, alla terra arsa, al suo odore secco, al miraggio dell'ombra.
Penso alle vibrazioni dei binari col treno che si avvicina, a quel millepiedi che scappa sul pietrisco, ai fili della catenaria che sbattono tra loro ed al loro rumore riecheggiare tra gli ulivi.
Penso ai due macchinisti, ai colleghi, ai loro nomi che non conosco ed allo stesso tempo al naturale bisogno di dargli del tu. Ci penso, penso ai camion che mi si sono piantati davanti all'interno dell'interporto, penso a quella volta in cui venimmo mandati per errore contro un altro treno e ci fermammo a soli 30 metri da loro, penso a quello scambio girato verso un binario mezzo smontato, penso alla frenata istintiva quando ti sembra di andare contro il treno che hai davanti.
Penso a loro due, a cosa avranno pensato quando si sono resi conto di cosa stesse accadendo. Penso e mi vengono i brividi, penso e non riesco a smettere, penso a quanto sia stato tutto così semplice, immediato, a quanto sia bastata una cazzata -a sapere quale- per fare quella fine lì.
E poi penso al fragore, alla botta vera e propria, alla polvere. E alle cicale che tornano a cantare, e al caldo infernale, e agli sciacalli che accorrono in processione tra quelle ulivare.
"Binario unico assassino", "I treni del sud vecchi di 60 anni", "Ben 70 morti negli ultimi 15 anni".
E ti sale l'embolo, e ti verrebbe da telefonare in diretta e dire che 70 morti li fanno le strade in un weekend solo, e ti verrebbe da dire che Ferrotramviaria è una delle società regionali più innovative in Italia, e ti verrebbe da chiedere a quello lì che se la prende con la Fornero se ha capito di cosa stiamo parlando, e ti verrebbe da dire che...ma che cazzo dovete dire e stradire, sono morte 20 persone, e forse qualcuno se ne sta pian piano dimenticando.

Vi abbraccio, tutti. Non è giusto.


domenica 22 maggio 2016

La passeggiata a Capocolonna

Setole di un pennellino che accarezzano pietre dal profilo irregolare alzano un leggero velo di sabbia e terriccio, entrambi impregnati di salsedine. Sole, sole cocente attenuato da un vento che spinge da ovest, il rumore metallico delle transenne che con quel vento si sfiorano, lo svolazzare delle bandierine rosse e blu e del nastro biancorosso che impedisce l'accesso alla torre.
Oltre c'è il mare, una nave che viaggia verso sud, con la chiglia poco sotto la linea dell'orizzonte. Dovrà pur finire da qualche parte, il mare. Ci saranno un tot di metri cubi di mare al mondo, o no?
Lasciate perdere, non contateli, lasciate il mondo come sta. Altrimenti che infinito sarebbe, quello che si staglia dietro quella linea dell'orizzonte?



L'intonaco bianco della chiesetta riflette come un faro la luce del sole, la sua semplice eleganza risplende sotto un cielo privo di nuvole. Alla sua sinistra la vista parte da Crotone e si ferma a Punta Alice, si distinguono bene anche Strongoli, Belvedere, la gola di Timpa del Salto attraversata dalla statale per Cosenza.
E poi il cubo bianco della Gres, i buchi neri dei pannelli della sua copertura che sono volati chissà dove, le trivelle dei giacimenti di metano, la gru gialla del porto nuovo, il fumaiolo della Pertusola subito dietro la città. 
La Pertusola, il mostro che pian piano sta scomparendo tra pale meccaniche e cariche di dinamite, il vuoto che sta lasciando nell'orizzonte, il vuoto che ha già lasciato nella vita di centinaia di esseri umani. E quel fumaiolo ancora in piedi, come un aguzzino che tiene il mitra puntato sulla testa del suo ostaggio.
Alla base di questa vista, come fosse a piè di pagina, due archeologi lavorano agli scavi di Kroton, sotto un sole cocente con due pennellini, una paletta e tre quaderni. Pennellata, appunto sul quaderno, pennellata, altro appunto, come se le pietre gli stessero parlando, come le nonne che raccontano i fattareddri ai nipoti.

E, con i gomiti poggiati alle transenne impolverate, provi un po' a vedere che effetto fa unire tutta Crotone, o tutto ciò che per te è Crotone, in un solo fotogramma.
Clic.



Quella passeggiata a Capocolonna è diventata come un talismano da quando non vivo più in Calabria. 
La lontananza ti regala anche questo, appuntamenti da prendere con te stesso ogni volta che torni a casa, momenti irrinunciabili in cui fare il punto della situazione, isolare e isolarsi, riavvolgere il nastro e vedere se la musica che hai registrato è uscita bene.
E' un po' come entrare in un confessionale, nell'unico confessionale in cui sei sicuro di essere completamente sincero, in quel confessionale dove anche mentire è utile a capire tante cose.

Quella passeggiata a Capocolonna ha acquisito il sapore amaro del portare i fiori al capezzale di un malato terminale, il sapore amaro dell'irreversibilità, dell'impotenza di fronte al tempo che passa, al tempo che facciamo passare, al nastro che, una volta scritto, non puoi cancellare più. Ed il rumore delle suole sul porfido ad ogni passo lo sento il doppio, la polvere che si solleva penetra dentro ed annebbia tutto, getta confusione su confusione, mischia quei nastri così tanto che, alla fine, non riesco manco più a leggerli.

Cos'è stato? E' stato che ora 1200 chilometri ci separano, sono tantissimi, e lo sai anche tu. Sai anche che per amor tuo non si vive, sai che amarti è facile solo quando si è lontani, che sei incorreggibile, e che io sono troppo moscio e cretino per permettermi il lusso di pensare di poter fare qualcosa per te.
So solo che probabilmente passerò i miei giorni col peso di tutte le storie che ci siamo raccontati e che con te, sulle tue strade, da Las Vegas al lungomare, dalla discesa San Leonardo a Poggioverde, ho costruito.

E' ora di andare, u 'nnu sacciu quannu scinnu, tantu u sà ca na passijata m'a fazzu.
Clic.