martedì 7 febbraio 2017

Mi pariva ca muriva e ssu jornu u 'nnu vidiva

Nella mia città c'è un piccolo stadio incastrato tra una collina ed un ospedale di cinque o sei piani, uno di quegli ospedali dove gli spigoli dei gradini delle scale sono ormai consumati e arrotondati, dove nell'ascensore c'è quell'odore plasticoso del cibo di mensa, a tutte le ore del giorno, dove i colori sono unti e sdruciti, i pannelli di plexiglass scheggiati, dove la macchinetta del caffè ti tira fuori più un bicchiere di acqua lorda che altro, dove tutti dicono che si va a morire, e poi ci salvano la gente. 'E 'ncuna manera.
La mia città ha diversi primati, quello di avere un ospedale come tribuna del proprio stadio forse è uno di questi. Come la vuoi chiamare? Tribuna Est secondaria? Curva Prontosoccorso? Mettiamo le finestre dell'ospedale (almeno dal terzo piano in su, ca sinnò 'un si vida nenta) nel conteggio degli spettatori a partita, e vedi che qualche numero più alto lo raggiungiamo.


Ma in fondo, cosa se ne fa una squadra come quella della mia città dei grandi numeri, delle grandi presenze? Una squadra che ha sempre navigato nelle tranquille ma torbide acque dei campionati regionali e interregionali, nessun grande nome, il calcio che conta si giocava sessantasei chilometri a sud. Una squadra che pian piano aveva risalito la china ritagliandosi uno spazietto, un ruolo nel professionismo, a cavallo tra la Serie C e la Serie B conquistata col nuovo millennio.
Ecco, la Serie B. Per la squadra della mia città è divenuta la categoria giusta in cui stare, con il suo buon posticino di metà classifica ed il solito mantra pre-campionato: "Puntare alla salvezza", magari togliersi qualche soddisfazione e, soprattutto, lanciare qualche astro nascente. Florenzi? Bernardeschi? Mirante? Konko? Ne dico altri? Lassa fricare..
Era il nostro ruolo e ci andava benissimo. Eravamo, siamo, in fondo a tutte le classifiche di questo mondo, però almeno nel pallone siamo una bella realtà, apprezzata e che percorre la sua onesta strada.

"Ma tu te lo immagini se andiamo in Serie A?"
"Seh...mo daveru..."
"Ma te lo immagini cosa succede?"
"Me lo immagino si."

Ci immaginavamo, parlandone con lei, che forse quel sogno, quel miraggio, poteva essere il punto di svolta per la nostra città. Ci immaginavamo, il giorno della promozione, come il giorno X, il giorno in cui sarebbe finalmente uscito fuori dall'animo dei nostri paesani l'orgoglio, il senso di appartenenza, la voglia di riscatto, portare anche la città ad una promozione per i più insperata, irrealizzabile.
Ma appunto, immaginavamo, ne parlavamo con gli occhi al cielo, lucidi e rassegnati, con l'amaro in bocca e quel peso interiore dato dall'impotenza. E sapevamo, appunto, che erano due cose difficili, anzi impossibili. Un asino che vola e ti risolve in contemporanea un'equazione di secondo grado sarebbe stato più credibile, credetemi.

Capitò che durante l'estate del 2015 Massimo Drago, l'allenatore, paesano nostro, andò via. Ci aveva salvato tirandoci per i capelli dall'ennesima retrocessione in C1 e ci aveva portato per la prima volta a sentire forte, chiaro, saporito l'odore della Serie A. Playoff. Playoff promozione per la Serie A, ragazzi miei, che fa i brividi solo a sentirlo. Non ci sembrava vero. Ed era vero, come erano veri i tre gol che il Bari ci rifilò, com'erano vere le tre birre -una per ogni gol- che Roberto, mio amico e collega tifoso sfegatato del Bari, mi portò la sera al cambio turno per consolarmi.


Un giorno di quell'estate arriva la notizia che Ivan Juric, croato di Spalato, è tornato, ed è tornato a rimpiazzare Drago. Ivan quel campo incastrato tra Via Cutro e l'ospedale (che nel frattempo veniva ritinteggiato all'esterno) lo conosce bene, lo ha calcato per diversi anni entrando nella memoria dei tifosi della squadra della mia città come uno dei migliori centrocampisti mai scesi in campo all'ombra dell'ospedale. Faccia e modi da burbero, sigarette e rollate a manetta, una stagione mediocre col Mantova alle spalle.
Ma siamo sicuri che ci salviamo con lui? Vabbè, se lo dice Ursino...
Ah, Ursino. Ursino è uno che di calcio ne capisce, 'uttana se ne capisce. Direttore sportivo della mia squadra fin dalle origini, uno che, nella scalata di categoria che la squadra ha realizzato, ne è decisamente l'appiglio, il corrimano, il martellino che si conficca nella roccia.
Arriva anche qualche altro giocatore, soliti arrivi in prestito dalle squadre più titolate: arriva, anzi viene confermato, Federico Ricci dalla Roma, Eloge Yao dall'Inter, Ante Budimir dal St.Pauli.
Budimir? St.Pauli? Ma che è sto St.Pauli? Vabbè, se lo dice Ursino...



Morale della favola: l'inizio di quella stagione fu costellato più di "E chistu cu cazz'è?" che di "Bonu, st'annu 'ndi salvamu", in linea col pessimismo cosmico preinstallato nel sistema operativo del crotonese medio. 
Sembrava un'annata come le altre, sempre con lo stesso sole, con le solite transenne alla rotonda della nave, con la stessa erba a volte poco regolare. Cambiava il colore dell'ospedale, che iniziava ad essere azzurrino.
Però la squadra giocava bene, gli ammalati affacciati al terzo, quarto e quinto piano si divertivano a vedere quel gioco spregiudicato e offensivo lì tra le quattro tribune dell'Ezio Scida. A un certo punto, come avvenne per il portiere Cordaz (non si capiva se era italiano o austriaco, ma era 'na bestia), uno degli effetti del fallimento del Parma un paio d'anni prima, fu che arrivò lì in via Cutro un tale Palladino. Uno che, qualche anno prima, era stato etichettato come il Cristiano Ronaldo italiano. Uno che con la palla ci fa quasi ciò che vuole, uno da Serie A insomma, per dirla in altri termini.

"Ma Rafelu 'ni vo far jiri in Serie A?"
"Vabbè, se lo dice Ursino..."
"No, tanto non ci andremo. Al massimo jocamu i playoff"

Avvenne che quella squadra iniziò a giocare bene, cazzarola se iniziò a giocare bene. Ragà, qui altro che playo...STATT CITT'! Ca si facimu i playoff è assai.
La squadra della mia città non ha mai giocato in palcoscenici particolarmente prestigiosi, forse il massimo del prestigio è stato il Delle Alpi di Torino (contro il Torino però), Marassi o il Dall'Ara. Na roba tipo, che ne so, San Siro o l'Olimpico mai.
E avvenne pure che capitammo, quasi per caso, a giocare a San Siro, contro il Milan, Coppa Italia.
Cinque anni prima giocavamo con il Lanciano, con il Martina, giocavamo con 200-300 persone allo stadio, giocavamo con una spada di Damocle che non capivamo cosa fosse, ma c'era.
Ora il nome della mia città compariva sui tabelloni di San Siro, il nome della mia città compariva grande ai piedi della curva. Era già bello, incredibile, così. Il punteggio? Tantu pigghiamu 'na cazz i scoppula...
E invece no. A scoppula 'a stava pigghiannu u Milan. Non vedevo la mia squadra dal vivo da un paio d'anni, e non mi sembrava lei, non mi sembrava la mia piccola squadra di provincia a mettere in difficoltà il Milan, a coglierlo di sorpresa, impreparato.
E non mi sembrò vero, non ci credetti per non so quanto tempo, quando vidi quel croato longilineo, si, quello che era arrivato dal St.Pauli (chi?), calciare e mettere la palla alle spalle di Abbiati.
Urlo. Addio voce.



"Oi mà"
"Che peccato perdere così..."
"Perso? C'am pers? Ch'amu fattu u culu paru paru. Simu morti ari supplementari, col Milan. L'ha capitu? Cu u Milan!"
"Essì, na bella partita"
"St'annu ni 'ndi jamu in Serie A. Non l'ho detto, ma ni 'ndi jamu"
"Mo non esagerare"
"Io non l'ho detto. Ma ci jamu"

Poteva mai essere vero? Magari sto sognando. Ma non svegliatemi da questo sogno. Non svegliateci da questo sogno...


E non ci svegliammo più. La squadra non mollava, non mollava un colpo, sempre lì sopra a giocarsela col Cagliari. "Non succede, ma se succede", scriveva sempre Laura.
E sembrava che il miracolo stesse avvenendo, sembrava che tutto quello che ci eravamo detti con lei, un giorno di tanti anni fa seduti ad una panchina della villa comunale (credo) si stesse avverando. Giravi per la città e le facce cominciavano ad essere diverse, cominciavi a vedere più di qualche sorriso sulla bocca della gente, non si parlava d'altro e tutto si colorava di rossoblu. Anche il piccolo stadio sotto all'ospedale venne rimaneggiato e rimesso a nuovo, finalmente il cielo si colorava di speranza. Era sempre più blu, il cielo è sempre più blu, tantatantatatatantatatatatantatatantatatatantatantatan...



Avvenne che iniziammo Aprile e la città non era più la stessa. In tutte le strade, in tutti i vicoli, tutto rossoblu, striscioni e bandiere. Crotone non era ultima, per una volta Crotone, quella che finora ho chiamato la mia città, era un nome che potevi urlare con orgoglio. La scintilla era scattata, il pedale della frizione abbassato per cambiare finalmente marcia. La città era bellissima come non mai, e il 22 Aprile, alle ore 22 e 22, tre fischi dati all'interno dello stadio Braglia di Modena la fecero esplodere. Io, a Piacenza, stavo per terminare servizio e transitavo per il binario 11. Esplosi, abbracciai Jacopo, il mio collega, e cercai di rendermi conto.
Crotone in Serie A. No, non a PES, non a Fifa, davvero. Crotone in Serie A davvero.



E poi? E poi quel quadro candido che si era creato ha pian piano cominciato a presentare le prime ombre, i primi buchi. Quel 22 aprile ci siamo svegliati dal sogno, e per direttissima ci siamo scontrati con la realtà, ci siamo scontrati con noi stessi, con la memoria corta, accorciata da quel pessimismo cosmico di cui sopra. Iniziammo a lamentarci di non essere arrivati primi (vincere il campionato di B, a differenza di Reggina e Catanzaro, come se cambiasse qualcosa), ci ritrovammo senza uno stadio, o meglio con uno stadio rappezzato ed aperto a stagione già ampiamente iniziata. Situazioni paradossali che hanno fatto tornare in voga la frase "Sul' a Cutrone sti cosi".
Ci siamo ritrovati in Serie A con un ambiente pesante come quello di una zona retrocessione in Serie B, dimenticandoci di dove siamo, di dov'eravamo, da dove eravamo partiti, e cosa ci dicevamo lo scorso anno. E' andata male, non è ancora finita ma bene non è andata, una campagna acquisti con molte ombre e poche, pochissime luci, Juric, Budimir e Palladino che oggi sono tra le due sponde calcistiche di Genova, una squadra che non riesce proprio a ingranare, incapace di lottare se non a sprazzi, a partite, a come gli gira gli gira. Non è il Crotone di Juric, non è lo stesso Crotone, ma neanche un po'.
Colpe? Non lo so, non sono così esperto da giudicare. Si poteva fare di più? Non lo so. Poteva andare meglio? Si, forse si, ma alla fine va bene così. Abbiamo avuto per anni un posto e quel posto sta sempre lì, male che va ci torniamo e potremmo raccontare di aver visto una Juventus tra le più forti di sempre giocare laddove, solo pochi anni prima, cercavamo di tenere a debita distanza la Serie C.



Ecco, ora forse avete capito perchè tifo Crotone, perchè per i colori rossoblu l'amore è viscerale, intrinseco, indivisibile ed immutabile nel tempo. Forse, capito questo, capirete anche come vedo il calcio, sicuramente in maniera stupida, ingenua, perchè anche io lo so, lo immagino, che alla fine è tutto business, è una enorme macchina da soldi che oggi non da più spazio alle favole, quelle vere e genuine. Non è più un gioco, un semplice gioco.
Io vedevo, vedo, un semplice gioco non come causa, ma piuttosto come volano per la rinascita di un territorio. Perchè il calcio può portare gioia, la gioia ottimismo, l'ottimismo sviluppo. Essere di Serie A nel calcio conta poco, conta nulla, se si è ancora inqualificabili in tutto il resto, se la passività e la rassegnazione sono il filo conduttore del pensiero in prospettiva della mia gente, se le speranze di una città ricadono quasi solo su quelle (poche, purtroppo) persone che non si rassegnano e vanno avanti, giorno dopo giorno, per le strade di Crotone.
Il calcio non è bastato, era ovvio che non sarebbe bastato, ma è stato bello crederci, sarà ancor più bello continuare a farlo, perchè quest'annata mi ha dimostrato che è possibile, che non è utopia, che i miei paesani sono davvero capaci di fare cose fuori dall'ordinario.

Fino alla fine, forza Crotone.

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