venerdì 9 dicembre 2016

Ij teng 'o mare

Chi tene 'o mare,
s'accorge 'e tutt chell' ca succere.
Po' sta luntano

e te fa sentì
comm coce...




Chi tene 'o mare,
'o ssaje,
porta 'na croce.


Chi tene 'o mare
cammina ca 'a vocca salata...



Chi tene 'o mare
o 'ssape ca
è fess e cuntento...




Chi tene 'o mare
'o ssaje
nun tene niente...




(Chi tene 'o mare - Pino Daniele)

giovedì 22 settembre 2016

Dio salvi la Reggina

Partivamo di prima mattina, di domenica, quando l'aria ha quel sapore di vaniglia e le uniche auto che incroci sono quelle di chi torna dalla discoteca con la camicia bianca sudata e strappata. Montegiordano, Roseto, Trebisacce, mentre si facevano le 9 e il sole non dava piú fastidio agli occhi. Sibari, Spezzano, l'autostrada, la sosta all'autogrill e i palazzoni di quella Cosenza che mi sembrava chissá che metropoli, poi lo slalom fino al mare che spuntava all'improvviso poco dopo San Mango, Lamezia, Pizzo e quel ponte in curva a strapiombo sul mare, le due ferrovie che poco prima quasi si incrociano, il porto di Vibo e poi le colline fino a Rosarno, gli agrumeti, la vibrazione interiore della distanza che si affievolisce. L'uscita di Palmi, l'indicazione per Seminara, le nostre radici che cercano di fare presa nel paesino che sorvoliamo con l'autostrada poco dopo, e poi lo Sfalassà, e il Pilone, la Sicilia e, un attimo sotto, Villa. L'uscita a Gallico, in piazza Posta per andare a pranzo 'ddu u ziu Gilbertu, dai cugini Nino, Giusy e Sara, magari ci sono pure le zie, alias i' signurini (se mi leggete ogni tanto capirete).
"Belardi e Bonazzoli". Rispondevo cosí, in ordine di importanza, quando mi chiedevano chi fossero i miei preferiti. Poi Tedesco, i due Ciccio, Cozza e Modesto (che, anni dopo, mi regalerá la gioia calcistica piú grande), Mozart e Paredes, piú avanti Biondini e Missiroli.
All'una e mezza andavamo via, "Dio salvi la Reggina" esclamava sorridente zio, sfruttando la mia scarsa resistenza al ridere ai piú scontati dei giochi di parole, mentre ci accompagnava al cancello di casa.
Del pezzo di autostrada tra Gallico e Reggio ricordo la Panda cabriolet con una enorme bandiera amaranto che usciva fuori dal tettuccio, l'Ape con due persone con la maglia di Nakamura sul cassone, le buche, il profumo di mare, l'imponenza dell'Etna li in fondo, la misteriositá della Sicilia li accanto.

La curva Sud in un Reggina-Roma - foto dal web
Sfilavamo per il lungomare, poi per qualche centinaio di metri lungo l'argine del Calopinace, quindi a destra sul lungo viale che porta all'aeroporto, trovando sempre posto in un enorme piazzale di fronte ad un palasport. Si vedeva giá la copertura della tribuna centrale svettare sopra le case, ed un primo brivido scendeva giú per la schiena. Un brivido, a me che da piccolo il calcio manco piaceva, io che lo consideravo uno sport come gli altri. Consideravo, appunto.
Le bancarelle, l'odore melmoso dei paninari, "dduj sciarpi deci euru", la via che portava allo stadio piena zeppa di gente, "papà i biglietti li hai?", l'ombra di dubbio, il sole dell'entusiasmo.
Arrivavamo nel piazzale e gli angoli non coperti dalle tribune lasciavano passare suoni e colori che ti attraevano come una calamita, ti mettevano una fretta cagna, 'iamu, trasimu. A volte andando verso gli ingressi incrociavamo i due bus di Tripodi che portavano le squadre, fermandoci in attesa che scendessero i giocatori, quegli esseri sovrumani che sembrava esistessero solo in televisione. Ricordo i gemelli Filippini che mi passarono a pochi metri, lo sguardo da ebete di Nakamura e quello manesco di Soviero, Mazzarri ca on sapiva mancu cu era, il sigaro consumato di Lillo Foti, Luciano Zauri di cui avevo mille figurine.

Shunsuke Nakamura
Ed una volta passati i cancelli (i tornelli erano robe da aeroporto ancora) e salite le scale, il campo, il campo e quell'aria tesa di incertezza che lo ricopriva. Prendevamo posto in tribuna, anzi una volta in curva, due nei distinti (Juve 2004 e, soprattutto, quell'indimenticabile 27 Maggio 2007 contro il Milan), seguivamo il riscaldamento cercando di capire chi dei nostri avrebbe giocato o di riconoscere al volo i campioni della squadra avversaria. E a pensarci...Ibrahimovic, Del Piero, Cafu, Ronaldo, Gattuso, forse pure Rivaldo, Cannavaro, Zanetti, tutti li su quel campo che sembrava dovesse ospitarli in eterno. 
Lo racconterò a mio figlio, semmai un giorno dovesse interessargli, che suo padre, ancor prima di perdere testa e voce per quel gol di Budimir a San Siro, ha visto Ronaldo giocare a Reggio Calabria, col mare dello Stretto di sfondo. Si, quel Ronaldo, quello li, forse il piú forte di tutti, lo ha visto con i suoi occhi fare un doppio passo su Aronica e scappare sulla fascia destra, anche quando ormai era solo una brutta e riccioluta copia dell'originale.

Salvatore Aronica, Ronaldo e Andrea Campagnolo in Reggina-Milan - Foto dal web
Juri Cannarsa osserva Zlatan Ibrahimovic in rovesciata durante un Reggina-Juventus - Foto dal web
Sono passati nove anni da quella partita, ci sono voluti un incrocio ed una strada sbagliata per riportarmi davanti a quello stadio, per riportarmi davanti agli occhi alcuni di quei momenti che il tempo non è riuscito e non riuscirá a cancellare, per riportarmi davanti al cuore la nostalgia di quell'aurea magica che copriva quelle quattro tribune strette tra il mare e l'Aspromonte. 
Non ho potuto fare a meno di accostare e scendere. Lo stadio quella mattina era aperto, la Reggina appena tornata tra i professionisti si stava allenando sotto un sole cocente. Sarei entrato volentieri, anche solo per sedermi cinque minuti su quella tribuna, ma senza tempo a disposizione, giá appoggiare le mani a quelle inferriate rese fresche dall'ombra dei salici è stata una bella riconciliazione.

Il Granillo, quella mattina di settembre..
Ma tutto questo è passato, tutto questo è nostalgia, bellissima nostalgia.
E ora?
E ora...
tan tata tananana tan tata tanana tan tata tananana tan tata...o meglio: 


mercoledì 14 settembre 2016

Vos et ipsam civitatem benedicimus

U vulissa capire nu sicilianu quannu 'nchiana supra u ponti, s'assitta, u ventu 'nci sparpaglìa i capiddi, u sali 'nci 'mpacchia, l'adduri d'a nafta ca saglia 'ppi tuttu u traghettu.

U vulissa vidiri pi intra, quannu chiudunu 'a celata e u traghettu comincia a ssi moviri, quannu Messina passa davanti all'occhi, lenta, comu quannu ti strappi i pili d'u vrazzu cu nu cerottu e u tiri chianu chianu, tantu chianu ca u duluri u senti parti pi parti, vota pe vota, pilu ppi pilu.

Ti vulissa vidiri, anzi ti vitti, cumpari sicilianu, quannu passi 'a Madonnina e trasi pe mmari.
"Vos et ipsam civitatem benedicimus", pi ttia cchi rappresenta? Pi ttia ca, cu na manu subba a balaustra, ripeti in silenzio chiri paroli mentri na goccia d'acqua ti scinna i l'occhi e si jetta a mari.

Cumpari sicilianu, amicu meu, ma iu sulu stràmmu a vidiri chira madonnina? Cumpà, ma com'è sapiri ca chira statua, e sulu chira statua, e sulu chiru mari, chiru pezzareddru i mari, ti dicia ca a terra tò finiscia? Ca subba a spiaggia ca vidi ddrocu avanti, a Villa, sì già nu foresteru?
Cioè, 'on ti pò capitari com'e mmia i essiri distrattu e 'on vidiri o cartellu a Nova Siri, fine Calabria inizio Basilicata, o non ti po' capitari ca è scuru e, da che partisti co' trenu da Scalea ti trovi a na vota a Sapri. Ecco, compà, 'on poi dire "Ormai siamo passati", 'on poi tirarti a' ceretta ccussì, zac, tutta a na vota, tu te l'ha soffriri a forza chiru confini, chiru mari e chiru ventu t'annu accultellari a forza. O dicu strunzati?


Vos et ipsam migrantium benedicimus.


martedì 12 luglio 2016

Blocco telefonico

Che la ferrovia rappresenti, per molti versi, una metafora della vita ne sono sempre stato convinto. Ne ho sempre letto così i suoi colori, le sue forme, le diramazioni e le scalate impossibili sui costoni delle montagne, le sue simmetrie e le sue geometrie.
La ferrovia è un mondo a se stante, oltre la linea gialla sono altre le regole da rispettare, altre le direzioni in cui guardare, altri i limiti da osservare.
E l'uomo, in ferrovia, è un limite. Sì, il suo stesso creatore è il limite della ferrovia, è la fragilità umana uno dei pericoli maggiori che corrono sui binari.
Penso ai due rettilinei che spaccano in due quel territorio disseminato di ulivi, ai muretti a secco che dividono la ferrovia dai terreni circostanti, alle cicale che cantano al sole bollente di un martedì di luglio, alla terra arsa, al suo odore secco, al miraggio dell'ombra.
Penso alle vibrazioni dei binari col treno che si avvicina, a quel millepiedi che scappa sul pietrisco, ai fili della catenaria che sbattono tra loro ed al loro rumore riecheggiare tra gli ulivi.
Penso ai due macchinisti, ai colleghi, ai loro nomi che non conosco ed allo stesso tempo al naturale bisogno di dargli del tu. Ci penso, penso ai camion che mi si sono piantati davanti all'interno dell'interporto, penso a quella volta in cui venimmo mandati per errore contro un altro treno e ci fermammo a soli 30 metri da loro, penso a quello scambio girato verso un binario mezzo smontato, penso alla frenata istintiva quando ti sembra di andare contro il treno che hai davanti.
Penso a loro due, a cosa avranno pensato quando si sono resi conto di cosa stesse accadendo. Penso e mi vengono i brividi, penso e non riesco a smettere, penso a quanto sia stato tutto così semplice, immediato, a quanto sia bastata una cazzata -a sapere quale- per fare quella fine lì.
E poi penso al fragore, alla botta vera e propria, alla polvere. E alle cicale che tornano a cantare, e al caldo infernale, e agli sciacalli che accorrono in processione tra quelle ulivare.
"Binario unico assassino", "I treni del sud vecchi di 60 anni", "Ben 70 morti negli ultimi 15 anni".
E ti sale l'embolo, e ti verrebbe da telefonare in diretta e dire che 70 morti li fanno le strade in un weekend solo, e ti verrebbe da dire che Ferrotramviaria è una delle società regionali più innovative in Italia, e ti verrebbe da chiedere a quello lì che se la prende con la Fornero se ha capito di cosa stiamo parlando, e ti verrebbe da dire che...ma che cazzo dovete dire e stradire, sono morte 20 persone, e forse qualcuno se ne sta pian piano dimenticando.

Vi abbraccio, tutti. Non è giusto.


domenica 22 maggio 2016

La passeggiata a Capocolonna

Setole di un pennellino che accarezzano pietre dal profilo irregolare alzano un leggero velo di sabbia e terriccio, entrambi impregnati di salsedine. Sole, sole cocente attenuato da un vento che spinge da ovest, il rumore metallico delle transenne che con quel vento si sfiorano, lo svolazzare delle bandierine rosse e blu e del nastro biancorosso che impedisce l'accesso alla torre.
Oltre c'è il mare, una nave che viaggia verso sud, con la chiglia poco sotto la linea dell'orizzonte. Dovrà pur finire da qualche parte, il mare. Ci saranno un tot di metri cubi di mare al mondo, o no?
Lasciate perdere, non contateli, lasciate il mondo come sta. Altrimenti che infinito sarebbe, quello che si staglia dietro quella linea dell'orizzonte?



L'intonaco bianco della chiesetta riflette come un faro la luce del sole, la sua semplice eleganza risplende sotto un cielo privo di nuvole. Alla sua sinistra la vista parte da Crotone e si ferma a Punta Alice, si distinguono bene anche Strongoli, Belvedere, la gola di Timpa del Salto attraversata dalla statale per Cosenza.
E poi il cubo bianco della Gres, i buchi neri dei pannelli della sua copertura che sono volati chissà dove, le trivelle dei giacimenti di metano, la gru gialla del porto nuovo, il fumaiolo della Pertusola subito dietro la città. 
La Pertusola, il mostro che pian piano sta scomparendo tra pale meccaniche e cariche di dinamite, il vuoto che sta lasciando nell'orizzonte, il vuoto che ha già lasciato nella vita di centinaia di esseri umani. E quel fumaiolo ancora in piedi, come un aguzzino che tiene il mitra puntato sulla testa del suo ostaggio.
Alla base di questa vista, come fosse a piè di pagina, due archeologi lavorano agli scavi di Kroton, sotto un sole cocente con due pennellini, una paletta e tre quaderni. Pennellata, appunto sul quaderno, pennellata, altro appunto, come se le pietre gli stessero parlando, come le nonne che raccontano i fattareddri ai nipoti.

E, con i gomiti poggiati alle transenne impolverate, provi un po' a vedere che effetto fa unire tutta Crotone, o tutto ciò che per te è Crotone, in un solo fotogramma.
Clic.



Quella passeggiata a Capocolonna è diventata come un talismano da quando non vivo più in Calabria. 
La lontananza ti regala anche questo, appuntamenti da prendere con te stesso ogni volta che torni a casa, momenti irrinunciabili in cui fare il punto della situazione, isolare e isolarsi, riavvolgere il nastro e vedere se la musica che hai registrato è uscita bene.
E' un po' come entrare in un confessionale, nell'unico confessionale in cui sei sicuro di essere completamente sincero, in quel confessionale dove anche mentire è utile a capire tante cose.

Quella passeggiata a Capocolonna ha acquisito il sapore amaro del portare i fiori al capezzale di un malato terminale, il sapore amaro dell'irreversibilità, dell'impotenza di fronte al tempo che passa, al tempo che facciamo passare, al nastro che, una volta scritto, non puoi cancellare più. Ed il rumore delle suole sul porfido ad ogni passo lo sento il doppio, la polvere che si solleva penetra dentro ed annebbia tutto, getta confusione su confusione, mischia quei nastri così tanto che, alla fine, non riesco manco più a leggerli.

Cos'è stato? E' stato che ora 1200 chilometri ci separano, sono tantissimi, e lo sai anche tu. Sai anche che per amor tuo non si vive, sai che amarti è facile solo quando si è lontani, che sei incorreggibile, e che io sono troppo moscio e cretino per permettermi il lusso di pensare di poter fare qualcosa per te.
So solo che probabilmente passerò i miei giorni col peso di tutte le storie che ci siamo raccontati e che con te, sulle tue strade, da Las Vegas al lungomare, dalla discesa San Leonardo a Poggioverde, ho costruito.

E' ora di andare, u 'nnu sacciu quannu scinnu, tantu u sà ca na passijata m'a fazzu.
Clic.


domenica 7 febbraio 2016

Sant'Elia

Sant’Elia passava i so’ jurnati inta ‘na capanna subba ra montagna ca domina Palmi. Campava contento d’i preghieri a nostru Signuri, e u Signuri u ringraziava donandoci l’acqua, i frutti, e chiru mari randi, bellu, ca i undi si girava e si votava ce l’avia davanti all’occhi.
Nu jornu, i ru sentieru ca portava a Barritteri, ci parvi i vidiri na figura strana, nìgura, cu nu saccu grossu e pesanti ‘nti mani, ca quasi quasi ‘un c’ha faciva a ru portari.
“Sant’Elì, buongiorno”
“Cu siti?”
“U diavulu”
“Ah, u diavulu…e chi voliti?”
Sant’Elia aru Diavulu ‘nci fici ‘mpressioni, a chiru esseri immondu ‘un c’era mai capitatu unu ca u’ssi spagnava d’a sua voci, d’a so’ figura, figurati unu cumu a Sant’Elia ca ‘on si riggiva mancu subba i so’ gambi tantu era gracilino.
“Aju truvatu ‘sti denari ‘nta nu casulari d’i parti i Seminara, e cu ‘sti denari mi vulia fari nu monasteru, nu monasteru ‘ppi mmia, ‘cca adduvi siti vui.”
“Ccà? Ccà ci sugnu sulu ieu, chi ‘ndaviti a fari ‘cca?”
U diavulu iaprì chiru saccu, e solo iaprendulu ci cattaru cinqu monete tantu era ‘cchinu. Sant’Elia i ‘vardau, pigghiau ru saccu e ru jettau tuttu pe ssutta a’ muntagna, cu ri monete ca manu a manu diventavano pezzi i carbuni.
“Cu vvuj ‘un ci vogghiu aviri nenti a cchi fari. Iativinni.”
U diavulu strambò, pigghiau ru saccu menzu vuoto e si ‘ndi jiu, ma sulu per nu jornu. Comu u putiva convinciri a Sant’Elia mi ‘nci lassa ra muntagna p’u so’ munasteru?
U jornu appressu si presentau.
“Tornasti? ‘On t’a dugnu a’ montagna”
“Pari ca teni fame. Càlati ‘ncuna cosa”
U diavulu ‘nci fici truvari na tavola imbandita con ogni ben di Dio, cacio, vinu, olive, persinu nu paru i cannoli pigghiati a Cefalù.
“Mangiatilli tu, ca ti viu n’antìa sciupatu” nci risposi Sant’Elia.
U diavulu, esasperato, si ‘ndi tornò arretu, ma arrivatu a Solano ‘nci vinni in mente n’idea:
“L’omu poti resistiri a dui cannoli, ma a ‘na bella figghiola ‘nzammà!”
U diavulu si trasformau inta ‘na figghiola bellissima, janca e splendente comu a’ luci d’u suli a menzujornu, sulu l’occhi ‘on riuscì a cangiari.
Si presentau poco dopo aru Santu, assittatu subba ‘nu scogliu a lejiri a Bibbia.
“Sant’Elì, vi pozzu disturbari?” ‘nci chiesi a’ signorina.
“Dicitimi”
“Pozzu farvi compagnia?”
Sant’Elia fici pi ss’avvicinari ara figghiola, quannu vitti nu focu ‘nta l’occhi so’. Capì ca ru diavulu era turnatu, ed essendosi scasciato bellamente i cugghiuni i tutta st’insistenza ‘nci jettau nu scaffu talmente forte ca ‘nci mancau pocu mi finiva ‘ntu mari. E mentri ‘nci jettava ‘ncoddu tutti ri pietre ca ‘na vota erano i so’ denari, ‘nci gridava:
“Vattini, vattinni d’a casa mia, vattinni i ‘sta terra. Lassala stari, lassala stari Palmi mia, lassa stari tutta sta terra ca vidi i’ sta muntagna, lassa stari Nicotera, Taurianova e Milazzo, vattinni fora da stu munnu, malidittu a ttia!”
U diavulu, ca si scantau forte i chiru piccolo santu, trovau ‘na roccia ca cadìa dritta ‘nto mari, zumpau lassannu subba a roccia ru signu ri so' zampi e, spiegando i so’ ali di pipistrello, fujìu via, lontano da lì, jettandusi drittu drittu ‘nta na piccola isola, Stromboli, i undi ‘un niscìu cchiù nenti se non u so’ focu e ru fumu r’a so pipa, consumata pensannu a chiru santareddu gracile gracile ca l'avìa sconfittu.


Panoramica dal monte Sant'Elia a Palmi (RC), in basso a sinistra il punto dove si trova realmente la Pietra del Diavolo, il macigno dove sono rimaste impresse le orme del diavolo raccontate dalla leggenda liberamente interpretata qui sopra.
Sullo sfondo Scilla, lo Stretto ed i monti Peloritani