venerdì 31 luglio 2015

Un salto a Seminara

Da Scilla l'autostrada sale con ampie curve, tra gallerie e ponti strallati, dando ogni tanto la vista dei vecchi viadotti in demolizione e del Tirreno che, visto da quell'altezza, sembra quasi una tavola di marmo solcata da minuscole formiche a forma di nave.
A Bagnara esci da quel mondo reale fatto di tabelloni e guard rail e, dopo una rotonda e un paio di sottovia, si comincia a danzare sulla vecchia Statale 18. E danzare non è per niente inappropriato, tra buche, curve con strane pendenze, auto che ti sorpassano felicemente con manovre dalla dubbia legalità.
Barritteri, paesino del paesino, quattro case e un tabaccaio, a due passi dal Monte Sant'Elia, là dove il diavolo spiccò il volo per inabissarsi dove oggi si erge lo Stromboli, là dove un piccolo bivio dà sulla ripida discesa che immette sulla stradina per Seminara.
Uliveti, uliveti, uliveti. Anzi, ulivare, ulivare, ulivare, il paesaggio si potrebbe sintetizzare così. Ogni tanto, tra un albero e l'altro, uno scorcio sulla Piana e sull'Aspromonte, cercando sempre di evitare quelle odiose buche proprio al centro della curva, agitando i piedi da un pedale all'altro per non far scappare via la macchina lungo la discesa.

La strada da Barritteri ti butta direttamente nel centro del paese, nel mondo irreale, un paio di incroci e c'è la piazza centrale.
Un grande quadrato battuto dal sole e colorato dai discorsi dei vecchietti, tutti, come fossero squadre, posizionati attorno alla loro panchina, nelle loro rughe e nelle loro camicie sudate, nelle consonanti raddoppiate, nelle vite passate e vissute.
Ogni tanto, al paese, come in ogni paese di quelli lì, incastonati tra le ulivare e lontani da ogni rotta di grande comunicazione, tornano i forestieri. Torna chi è partito, i figli o i nipoti di chi è partito, lontano o vicino, o meglio sufficientemente lontano da andarci una volta ogni tanto, sufficientemente lontano da metterti al di là della linea di demarcazione in cui si trovano i forestieri. Anzi, i ggenti 'i fora.

E può capitare che arrivi al paese per portare i fiori al cimitero dal nonno, e già che ci sei di cercare un po' di struncatura, magari quella servita ancora nella carta da pane, come una volta.
Quindi via, passi la piazza, arrivi davanti la basilica, giri a sinistra a cercare il fioraio.
E non c'è, tutto chiuso.
L'altro?
Pure quello mi pare chiuso.
E mo?
Andiamo al cimitero senza fiori, pazienza. Ma già che ci siamo chiediamo per la struncatura, tanto c'è un alimentari aperto lì accanto, con l'anziano proprietario chino a sistemare la cassetta di pomodori.
"Chiedo scusa, sapete dove possiamo trovare la struncatura?"
E niente.
"Scusi?"
E niente.
Poi esce una ragazzina, si avvicina e ci dice, con uno strano imbarazzo -quello abitudinario di chi ormai i clienti del negozio li conosce a memoria- che loro ce l'hanno, ma bisogna aspettare un'oretta finchè sua madre rientri. Bene, almeno una cosa ce l'abbiamo.
E fiorai? Sapete dove ne possiamo trovare?
Subito dopo si muove la tenda della macelleria accanto, esce un omone con una brioche gelato in mano ed il grembiule bianco ancora macchiato del sangue delle bestie.
"Signò, u fioraiu 'cca esti, mo' si 'ndi jiu"
Si affaccia dall'altro lato della strada...
"Aaaah, puru chiddu vicinu 'a farmacia esti chiusu. Vuliti ca vu chiamu u fioraiu?"
Non ricordo neanche cosa rispondemmo, sta di fatto che l'omone tirò fuori dalla tasca il telefono e chiamò.
"Ntò! Vì ca cci su genti i fora ca vannu cercandu fiuri. Po' veniri?"
Altri trenta secondi di conversazione, poi chiude il telefono e ci dice
"Signò aspettate 5 minuti ed il fioraio è qua"
Ancora spiazzati, ringraziamo ed aspettiamo. Talmente spiazzati da non capire se si riferisse al fioraio vicino a lui o a quello vicino la farmacia, 100 metri più avanti. Iniziamo quindi a vagare con poca convinzione lungo la via, tenendo d'occhio entrambe le saracinesche, aspettando che arrivi qualcuno.

A un certo punto, con noi a metà tra un negozio e l'altro, il macellaio si sbraccia e urla "Arrivau! Veniti!", mentre un furgoncino si parcheggia davanti la saracinesca vicina al macellaio. Scende un anziano, chiedendoci semmai fossimo noi quelli che lo stavamo aspettando, guardandoci con un'aria leggermente diffidente.
"Cchi fiuri vuliti?" esclama mentre ci porta 4 vasi tutti diversi tra loro. E non ci sei abituato, magari, a scegliere che fiori prendere, sai che vanno portati e basta, morta lì. Fiori per il cimitero, quello mi serve, stop.
"Senta, ma il cimitero lo troviamo aperto a quest'ora, vero?"
"Se vi devo dire una bugia, vi dico di si...è tardi".
E ti crolla il tetto di quel negozio addosso, ti tira una copanata in testa di quelle non indifferenti. Tutte quelle curve in mezzo alle ulivare, quelle beshtemmie tirate giù al ragazzino con la Golf che ti ha tagliato la strada poco dopo Marcellinara, tutte cose praticamente inutili.
"Ma i fiori a chi 'nci l'aviti purtari?"
"Lascala...non so se conoscete"
"Ah...Lascala...ma Lascala d'e signurini?"


Si, d'è signurini. Le signorine che sono le mie zie Maria e Carmela, entrambe viaggianti sul filo degli ottant'anni senza mettersi mai l'anello al dito, ancora oggi residenti nella villa di famiglia, quella Villa Rosaria che nei miei anni di mocciosaggine era un mondo da scoprire, dal giardino strapieno di piante e vasi nella classica ceramica di Seminara al vialetto che aggirava la casa finendo lì dove si radunavano sempre i gatti, dal torrente che correva accanto al cancello al burrone che dava sulla vecchia ferrovia per Sinopoli, scendendo dal quale si arrivava davanti alle due gallerie dove si andava a rifugiare l'intero paese durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale.

E una volta capito a che "razza" apparteniamo, e che poi tanto forestieri non siamo, ecco che il volto del fioraio cambia. Appare un primo abbozzo di serenità, e capito il problema non batte ciglio nel porgerci in un piatto d'argento la soluzione.
"Cominciate ad andare, vengo io e vi apro il cimitero, 'ccussì 'nci portati i fiuri".
Incartiamo i fiori, paghiamo e in tutta fretta andiamo verso il cimitero.
Un cimitero discreto, silenzioso, immerso anche lui nelle ulivare, lontano anche dalla provinciale per Melicuccà a cui è allacciato da una stradina ai limiti tra lo sterrato ed il terremotato. Ecco, quello si che è riposo perpetuo, e mi vengono in mente subito i poveri defunti di Lodi Vecchio, il loro cimitero, con attaccata alle mura un'industria petrolchimica ed un'autostrada poco oltre.
Arriviamo, il cancello è già aperto, da una stradina arriva il furgoncino del fioraio.
"Trasiti, faciti con comodo, tra poco arriva u' custode, tante cose!"
Tante cose, e va via quando vorresti scendere, abbracciarlo, fargli capire come nel mondo reale certe cose non si vedono, certe cose ce le eravamo scordate. Di brutto.
Una scalinata dà l'accesso ai sepolcri, e come al solito a regnare è solo il rumore delle cicale ed i brividi del vento, in quel posto dove l'eternità tende la mano alla transitorietà.
Ciao nonno, da quanto tempo. Lassù sta andando bene, tiriamo avanti, anche se già lo sai. Sono sudato, abbiamo fatto su e giù a Scilla e a Sant'Elia, non sai che scene prima di arrivare qui, quasi tornavo a casa a mani vuote, e non era cosa. Certo che dovevo preoccuparmi di venire, certo che dovevo, che non potevo rimandare. Che da Piacenza come vengo qui? Già Crotone è lontana. Come vengo a vedere quanto salde sono ancora le mie radici? Eccetera eccetera.

Poi, all'improvviso, spunta il custode.
"E' vostra la macchina grigia?"
"Si, si"
"Va bene...no perchè sono il custode, giusto per sapere, non vi preoccupate. Da dove venite? Siete suoi parenti?"
Ed è un libro che si apre, perchè nel mondo irreale tutti si conoscono, bene o male. Ed è lui a dirmi che una figlia del Dottore è a Milano, e sono io a dirgli che è mia zia, ed è lui a dirmi che suo marito lavora nelle ferrovie, e sono io a dirgli che anche io ci lavoro, ed è lui a dirmi che glie l'aveva accennato l'altra volta che aveva un nipote macchinista, e ci diciamo tante cose, scaviamo nel tempo e nel lavoro che non c'è, nel figlio che a 25 anni non trova come realizzarsi, nella Calabria martoriata, bellissima e martoriata, che non fa che soffrire e portare sofferenza, per colpa di chi non si sa, malanova m'avi.
E andiamo via, ci salutiamo cercando di quantificare con le parole la riconoscenza anche a lui, perchè non è stata una cosa qualsiasi, una cosa normale, che nel mondo reale non ci sarebbe stata.
Rientriamo. Di nuovo la strada, di nuovo il paesino, una sosta per prendere un po' di struncatura e per salutare i signurini, il loro latte di mandorla nel giardino, i ricordi, la banconota da 50 euro "cu chissa ti ccatti i caramelle", gli abbracci e il non sapere come salutarle adeguatamente.
La strada, ancora la strada, Palmi e lo svincolo dell'autostrada. E poi, il mondo reale.

Ma il problema è proprio questo, mondo reale e mondo irreale. Perchè li distinguo? Perchè Seminara è un mondo irreale, per me? Perchè la solidarietà, l'idea di una comunità che viene in soccorso di un forestiero per aiutarlo a fare ciò che vorrebbe fare, l'idea di una società fatta di persone e vissuta di persone, mi pare facciano parte di un mondo irreale? Perchè dev'essere normale, reale, l'isolamento di un'identità, il pensare solo alla propria strada, scremare le relazioni interpersonali a qualche uscita la sera, alle 8 ore di lavoro, e poco più -o meno-?
Perchè in quel mondo reale di soldi si campa e di umanità si muore?


venerdì 3 luglio 2015

Ipercoop

Grande parcheggio, uscita dedicata dalla tangenziale, un totem con 6-7 marchi che si vede da chilometri, un faro di luci variopinte nella monotonia del buio notturno. Quasi tutte le grandi città hanno da qualche parte, nella loro periferia, un qualcosa del genere. Grande, piccolo, col parcheggio coperto, 128 negozi e 2 salumerie, 3000 posti auto e 100 carrelli, sabato e domenica pieno, non trovi parcheggio, tiri una bestemmia al vecchio che viene contromano nel parcheggio.
E' un film, una pellicola che va avanti a ripetizione, quel posto li.
Frutta, verdure, affettati, carne, formaggi, cose in offerta, yogurt, birra, cereali, latte, biscotti, sugo, salse, pasta, surgelati, pagare. Entri in quel giro in cui l'altra gente sembra piazzata lì come birilli da scansare, una specie di MarioKart estrapolato dal Nintendo.
Fa impressione alzare la testa e guardare la gente all'Ipercoop. Guardare i loro occhi fissi agli scaffali o persi per aria pensando a cosa manca sulla lista, le facce spaesate dei mariti ed il passo sicuro e serafico delle mogli, i bimbi che si stropicciano gli occhi davanti al Tablo Perugina o con un pacchetto di San Carlo stretto fra le loro mani prima, fra quelle della madre mentre, sullo scaffale poi.
Cosa penseranno i commessi? Quante ce ne diranno dietro, a noi clienti? Di chi parleranno a casa?
Tutti diritti, tutti che vanno dove sanno di dover andare, sanno cosa cercare, tutti determinati, soli nella loro determinazione.
Una folla sola.

sabato 11 gennaio 2014

Puntare la sveglia/Svegliare la punta

4.45. Anzi no, 4.40, meglio risparmiare quei 5 minuti in più, meglio calcolarli.
Calcoli dalla mattina alla sera, già che ci sei calcola anche la giusta sveglia.
Cosa calcoli dalla mattina alla sera, tu che stai seduto con le chiappe sui binari per 8 ore al giorno con un manovratore che ti dice cosa fare, quanti carri mancano, al di là della ricetrasmittente?
Calcolo la nebbia. Calcolo quante possibilità ho di uscire vivo da una curva stretta lungo la Padana Inferiore, prima di Stradella, a Cardazzo. Che sembra tanto un paese dalle parti, che so, di Ferruzzano, di Casignana, di Rosarno, e invece è qui, nell'Oltrepò Pavese, dove tutto sembra appoggiato su un pony rosa che cavalca in un prato di fiorellini.
Ricchiùni, con rispetto parlando.
Però non è male girovagare nella nebbia tra i binari di Piacenza, con le lepri che sbucano fuori dai carri e le luci delle torri faro che tagliano la nebbia in due, come fossero affilati fendenti.
Ci manca solo Fischia il Vento nelle orecchie et voilà, quadretto perfetto.

Qualcuno diceva "Fà della tua passione il tuo lavoro, e non lavorerai un solo giorno nella tua vita."


sabato 13 ottobre 2012

Non-luoghi

Luci al neon, una panchina in freddo marmo e il sapore dell'attesa. Quel sapore fatto di tante cose, frequenti tastate alla tasca destra per sentire se il biglietto è ancora al suo posto, pollici che girano, occhiatacce all'orologio, continui movimenti per sentirsi un po' comodi in quella panchina in quell'avamposto nel nulla. Odore di pianura, aranceti e fertilizzanti, odore di nafta bruciata e sigarette spente prematuramente per evitare di restare piantati a terra.
Silenzio, finto silenzio, i ferrovieri che seguono Cosenza-Perugia e viaggiatori, finti o veri che siano, a consumare fette della propria vita tra quei marciapiedi secolari, quei marciapiedi che hanno un nome. Valigie ad assisterli, ad accompagnarli in questo tempo che vola come un gabbiano impaurito e voglioso di libertà, in questo spicchio di mondo che da quel tempo dipende come pochi altri.
Le luci rosse dei segnali, sornioni a riflettersi sui binari, lucidi, come sempre. I fili della catenaria che si stagliano tra le ultime luci del giorno, filo spinato verso quel cielo che a noi umani non è permesso. Almeno in teoria.
Rumore di ingranaggi e frizioni, si risveglia la piccola automotrice sul secondo binario. Treno 3757 per Crotone, ultimo della giornata, poi tutti a nanna.
I non luoghi, le stazioni. Quei posti fatti solo per transitare, sgattaiolare tra una partenza e una destinazione, monumentali o meno che siano. Un nome, una progressiva chilometrica, un numero di posto di blocco, non un luogo. Forse è riduttivo chiamarli luoghi, non si sa, forse è dispregiativo, o forse è un misero complimento. Non sono luoghi fatti per restare, le stazioni. Sono luoghi per scappare, non importa da cosa, basta salire sul primo treno e scappare. Sono luoghi per scegliere, scegliere quale diramazione impegnare, quale carta giocare. Sono luoghi per pensare, per piangere un amore appena scoperto o per andarlo a cercare, 1033 chilometri più a sud. Sono luoghi per andare via, per due settimane, per un mese o per tutta la vita. Dalla vita.
Giustamente, come fai a considerare un luogo qualcosa del genere? Sarebbe un po' come chiamare un film "serie in rapida successione di fotografie", se mi è permessa questa freddura.
Della vita forse non ci ho capito molto, ma ciò che è certo è che si viaggia a binario unico.

And who wants to understand, understands!


sabato 22 settembre 2012

Und die kleine, und die spiele, und die arbeit.

"E finalmente una sera, dopo il solito sguardo senza parole, ebbi il coraggio di rivolgergli la domanda che avevo sulla punta della lingua da molto tempo:
<>
Mio padre non rispose subito. Allora io aggiunsi: <>
Lui mi prese la faccia tra le mani e mi guardò dritto negli occhi. Disse con una voce profonda, quasi commossa: <>



Tu che fai? Binario 2 o Binario 3? Forse quei tabelloni della stazione di Paola sono, in un certo senso, l'immagine della mia pistola alla tempia del bagasciàro nato. La mia storia, la stessa storia di tanti miei conterranei, gli uomini dalle valigie di cartone, la storia del vecchietto incontrato oggi sul regionale per Catanzaro Lido che tornava a Crotone dopo 26 anni a Valenciennes, in Francia, e si stupiva di come i vigneti di Cirò fossero ancora lì, immobili, come se quei 26 anni fossero solo carta straccia. La storia della mia terra, le sue partenze e i suoi arrivi, i suoi boschi e le sue spiagge, i tramonti accecanti sulla Statale 106.


"Vino, bancarelle, terra di sud, terra di sud, terra di confine, terra di dove finisce la terra."

Ogni volta che ci si torna lo si assapora quel vino, quel vino che trasuda da questa terra infiammata, quel gusto aspro e piacevolissimo fatto di consapevolezze e consonanti raddoppiate. Ogni volta è strano andarsene lì al Nord, specie quando non ci vai propriamente in vacanza, specie quando i chilometri cominci a macinarli come niente, a non contarli proprio più. Voglia di assaporare quel vino, voglia di sud, voglia di casa.

sabato 25 agosto 2012

#580

Ed in un viaggio può capitare di ritrovarsi a ricontare tutto quel che è stato di te.
Quello che hai perso, quel che hai trovato,
quel che hai goduto, quel che hai sprecato,
quello che hai chiuso e quello di te che hai aperto..

Qualcuno ogni tanto mi chiede perchè conservo tutti i biglietti dei viaggi che mi tocca fare, anche quei Catanzaro Lido - Torre Melissa di cui avrò ormai più di un centinaio di copie conservate in quella scatola di scarpe giù nell'armadio. Ogni viaggio a suo modo è importante, sa essere importante, e spesso ci se ne accorge dopo, che siano dieci minuti o dieci anni.
IC 580, giorno 5 agosto, completa tratta da Terni a Milano Centrale, epilogo della ormai abitudinaria "settimana d'aria" da Alessandro in quella città che più vado avanti e più mi sento cucita addosso. Carrozza 3, posto 66 al finestrino e tanto sonno. Ho perso l'abitudine a dormire la notte, più per svogliatezza che per altro, ma vabbè.
Da Terni a Spoleto non riesco a recuperare il sonno perduto, chi conosce quel tratto di linea capirà il perchè, mentre da lì fino Perugia fortunatamente le palpebre cedono un pò il passo. Poi Perugia Ponte San Giovanni, la stazione che sembra essere uscita da un plastico, seguita da un giro assurdo tra colline e controcolline, fino ad arrivare a Perugia Fontivegge, col 541 per Roma già salutato la sera prima pronto sul terzo binario.
Perugia dà una botta di vita a quel treno che da Terni aveva caricato non più di uno-due persone a stazione, esclusa Assisi dove il turismo religioso ti ronza fastidiosamente intorno anche alle 6 del mattino, preghiere ad alta voce appena partiti comprese. Fino a Perugia ero da solo nel mio modulo (era tanto bello quando potevo chiamarli scompartimenti, che cazzen), alchè arriva una ragazza col posto prenotato davanti a me. Alta, capelli corti, carnagione chiarissima e accento facilmente riconducibile al lombardo. Si accomoda e comincia a leggere un libro. Sguardo fisso, serio, che esprime quella vaga sensazione da puzza sotto il naso che i lombardi hanno un pò per carattere. Mi metto un pò a scrivere, e nel frattempo oltrepassiamo Perugia, Ellera, Passignano, Tuoro, per arrivare poi nel deserto di Terontola. Un annuncio incomprensibile del capotreno è la prima risata assieme, il suo replicarsi in arrivo ad Arezzo è la miccia per cominciare un pò a scambiarsi quattro chiacchiere. Le solite quattro chiacchiere da gente che a quei treni ha regalato un bel pò di fette della propria vita, origini e destinazioni che si intrecciano con ritardi assurdi e carrozze senza aria condizionata.
"Ma sei sicuro che questo è un Intercity? Dagli interni mi sembra un Eurostar!" mi chiede in uscita da Firenze Santa Maria Novella, la scusa per cominciare a parlare seriamente di ferrovie. Le racconto della mia passione, è sorpresa che ci sia gente che passi il proprio tempo libero appresso ai treni, per quanto lei li adori e siano praticamente l'unico mezzo che usa per fare su e giù da Cremona a Perugia, dove si è laureata qualche mese fa. Il viaggio tra Firenze e Bologna trascorre tra qualche aneddoto sulle maioliche di Deruta e i particolari sulla stazione di Precedenze in mezzo alla Grande Galleria dell'Appennino, mentre un turista giapponese salito a Firenze e piazzatosi al posto dirimpetto al mio dopo poco si addormenta.
"Dove siamo qui?"
"San Benedetto Val di Sambro"
"Ma tu sei un mostro!"
Mi rimase impressa questa scenetta, come le risposi in quella maniera con disarmante tranquillità rendendomi conto solo successivamente di quanto sarebbe bastato un semplice ed open-source "mezz'oretta e siamo a Bologna". Ci fecimo una risata e tornammo a parlare di maioliche ed incisioni, di viaggi fatti qua e là, di Calabria. Insomma, i discorsi di due viaggiatori che il destino (o il sistema di prenotazione di Trenitalia) ha voluto mettere lì, sul 580, il 5 Agosto 2012 in due posti contigui. Perchè è quando si formano queste piccole e strane intese così, dal nulla, senza aspettarselo che capisci il vero valore, la vera bellezza del viaggio. Mi accadde già due anni prima con Rosita, sul mio 615 tornando da Milano, e ancora oggi ogni tanto qualche parolina e qualche caffè a Santa Maria Novella capita di scambiarseli. Ridevamo spesso, anche vedendo l'espressione decisamente comica del giapponese bellamente addormentato, ed era tremendamente curiosa la sua espressione interrogativa, quel "Ah si?" classicamente padano.
Poi arrivò Bologna. Mentre si continuava a parlare, un annuncio.
"Si avvisano i signori viaggiatori che il treno partirà con un ritardo di 180 minuti a causa di un deragliamento nella stazione di Lavino."
In quei casi è difficile capacitarsi della situazione, capire cosa fare e cosa non fare. Noi ce la ridemmo un pò, per poi tentare di capire il da farsi. Sui tabelloni tutti i treni sono previsti egualmente con 3 ore di ritardo, non resta che aspettare. Tra una chiamata e l'altra passa una sana mezz'ora, dopodichè un altro annuncio.
"Si pregano i signori viaggiatori diretti a Modena, Reggio Emilia, Parma, Fidenza, Piacenza e Lodi di recarsi al binario 1 Tronco ovest dove troveranno treno regionale in partenza per Milano Centrale. Questo treno prosegue senza fermate intermedie per Milano Centrale"
Lei era diretta a Piacenza, dove avrebbe poi cambiato per Cremona. L'annuncio era un pò ambiguo, mi recai dal capotreno per chiedere maggiori informazioni, il quale mi confermò che il nostro treno avrebbe bypassato l'incidente transitando per Verona. Di fretta rientrai in carrozza, gli spiegai la situazione e la aiutai a scendere i bagagli, il capotreno intimò di affrettarsi e non era il caso di restare bloccati a Bologna.
L'accompagnai fino all'imbocco del sottopassaggio.
"Buona fortuna". E finì là, in mezzo ad un assurdo via vai di viaggiatori, schede treno e pensieri.
Ritornai sul treno, dopo pochi minuti partii, e dopo quei pochi minuti cominciai a vederci bene in quella bolgia di pensieri. Quel che hai perso, quel che hai trovato, quel che hai goduto, quel che hai sprecato.
E' finito tutto con un buona fortuna. Sappiamo chi siamo, ma non i nostri nomi. Due viaggiatori distratti, persi tra le campagne di Nogara o su un bus sostitutivo tra Piacenza e Cremona, due strade che per un pò si sono affiancate e ora corrono chissà quanto distanti tra loro, e chissà se un giorno si incroceranno di nuovo. Forse si, in parte ci credo, in fondo i treni servono ad andare come servono a tornare.
Lo avrei voluto prendere quel Regionale, quando vidi il segnale disposto a via libera per il mio treno per un attimo pensai di prendere le valigie di corsa e scappare anche io al binario 1 Tronco ovest. Una cretinata, si, ma in questa vita che di cose belle è abbastanza avara forse sarebbe stato un piccolo sprazzo di cielo sereno, forse non avrebbe portato a nulla di più che qualche altra parolina sulle maioliche di Deruta ma forse avrebbe scacciato questo strano senso di rimorso ogni volta che prendo in mano quel biglietto, anche lui gelosamente conservato dentro quella sdrucita scatola di scarpe.
Non finisce qua. Almeno credo, almeno spero.

martedì 31 luglio 2012

Però...

...però.
Ecco, però le valanghe arrivano all'improvviso. Ci sono tutti i segni per capire che da un momento all'altro possono venir giù, cartelli del soccorso alpino o semplice logica nata da anni di esperienza. E' tutto chiaro, sai che se quella valanga cade potrebbe essere anche per un tuo movimento sbagliato, un passo sul fronte della slavina, una benchè minima cazzata utile nella sua semplicità per scatenare un putiferio. Però credo di essere stato uno dei pochi pazzi al mondo ad aver sciato fuori pista, a fare apposta quel movimento sbagliato, appositamente per far venire giù tutto il costone innevato od almeno provarci. Tuffarsi un'altra volta nell'ignoto senza aspettare Godot.
Gioia che afferri improvvisa, come cantavano i Baustelle. La afferri e la metti nel cassetto, non sapendo chissà quando e se ti ricapiterà. La afferri e cerchi di capirne il valore, la bellezza, cerchi di quantificare tutto ciò che puoi. Invano, perchè in certi momenti si diventa voraci, ossessionati, si sente dentro un voler far cadere quella valanga cento e mille volte, così, perchè mi va, perchè ci va. Perchè quella spiaggia e quella musica sono la sola cosa che serve adesso per far cadere la valanga. Anche per finta.
Ma poi penso...perchè mi trovo a parlare di valanghe col mare a 100 metri da casa?
Forse è solo questione di similitudini, perchè ci sono di quelle cose che con parole semplici non si descrivono.
E poi cantarla a squarciagola.



"Do you think you can tell?"