1.107.583 metri. Detta
così è lunga, lunghissima, ti affatica solo a pensarla, ti affascina ad immaginarla, immaginare di salire quegli scalini e gettarsi a capofitto in un viaggio lungo la dorsale dello stivale, andando a scovare e smascherare tutti gli angoli, tutte le sfumature, tutti i dettagli che lo ricoprono.
Sono oltre 10 ore di viaggio da Piacenza a Paola, un sacco di fermate intermedie, un qualcosa che ai tempi delle Frecce, di Italo, di un'Alta Velocità sentita come un bisogno morboso, un feticcio del tempo, sembra quasi anacronistico, fuori luogo, da matti.
Eppure un treno di questi, se non hai fretta, è il miglior punto panoramico d'Italia. Basta un posto al finestrino -magari in prima classe-, qualcosa da mangiare e da bere, carta e penna, un paio di cuffiette. E il viaggio non diventa solo l'attuazione del rapporto tra spazio e tempo, diventa un qualcosa di più-
E passa la Toscana.
Passano le colline, il treno che passa in piega ad Arezzo, danza tra
Cortona, Montepulciano, le terre del Chianti, saluta Terontola e il
Trasimeno che specchia quel cielo che ci rincorre, ci accarezza, ci
dice che ancora ci vorrà un bel po’. Chiusi, poi la Direttissima,
a 200 all’ora bucando e ribucando la colonna vertebrale d’Italia.
E scorre Allerona, e scorre Orvieto, il suo duomo, il fascino scuro
dell’Umbria, della Foresta dei Giganti a Bomarzo, del cucuzzolo su
cui si erge Orte mentre veniamo mangiati dalla galleria che lo
trafigge.
Chiusi (SI) |
200
all’ora, poi 150, poi 110. Settebagni, una delle porte di Roma, le
fermate imbrattate, umanità alla ricerca di una via lungo la
Salaria, camion, treni, aerei, auto della polizia, puttane,
manifesti, palazzi, finestre, semafori, colori, colori, colori,
Nomentana, ponti, cemento, cemento, cemento e ancora cemento,
Tiburtina, cinque persone, le strade e gli autobus, hipster e
incravattati, Portonaccio, Roma da sotto, Roma da dietro, Roma da
dentro, Roma sfiorata, Roma vissuta, Roma amata.
Poi Casilina, e si va a
Napoli. Un ultimo saluto agli acquedotti lungo l’Appia, la lunga
pianura dell’Agro Pontino messa lì a combattere con i monti del
Circeo. Sermoneta che ci guarda dall’alto, Latina che nel suo
razionalismo ci dice che no, non siete arrivati, c’è ancora strada
da fare. Rocce e prati, prati e rocce. Sezze, Priverno, la lunga
galleria, Monte San Biagio allungato su un costone di roccia. Il
treno si piega, serpeggia, sembra volerci cullare a tutti con quello
spettacolo che scorre dal finestrino come fosse l’ultima pellicola
di Kubrik, talmente favoloso appare il paesaggio di questa dannata
penisola.
Tra Itri e Formia (LT), il Tirreno col golfo di Gaeta |
Itri. Un’altra
galleria, i 25 ponti della vecchia ferrovia per Gaeta, ed eccolo lì,
finalmente. Un tavolo blu che non finisce più, ci tende la mano,
glie la stringiamo, “piacere, Tirreno” / “piacere,
Viaggiatori del 1591 per Reggio Calabria”, parlottiamo per un
po’, tempo di passare Formia e Minturno, poi ci dividiamo per
vederci dopo, che lui ha da allietare i bagnanti di Mondragone nel
frattempo. Ci salutano i monti Aurunci, spingendoci verso Villa
Literno, dove con un’ampia curva a sinistra ci buttiamo dentro
Casal di Principe, Albanova, Aversa, quelle terre afflitte da quel
cancro maledetto chiamato camorra. Mattoni a vista, polvere,
recinzioni con le reti dei materassi, auto bruciate, ragazzini che
giocano a pallone con la maglia di Calaiò. Sant’Antimo,
Frattamaggiore, Casoria. Case, casette, magazzini…poi il Vesuvio.
Ti compare all’improvviso, quasi ti fa spaventare, la sua
maestosità che incute timore e rispetto, la sua grandezza splendente
della più vera autenticità. E Vesuvio vuol dire Napoli, Napoli vuol
dire la città più bella del mondo. Te ne accorgi anche nei soli 15
minuti di sosta alla stazione centrale, perché la respiri l’aria
di Napoli, quell’aria che ti libera l’anima e ti fa sorridere
così, naturalmente, ti fa sorridere di quell’ostinato ottimismo
che i Napoletani hanno insegnato a tutto il mondo.
Di nuovo a 200 all’ora
alle spalle del Vesuvio, aggirandolo quasi nascosti tra gallerie e
trincee, cercando di non disturbarlo nel suo dolce sonno. La galleria
di Santa Lucia, poi improvvisamente Salerno. E Salerno non è solo
una grande città, una stazione importante, è anche il posto dove
capisci che ora sì, casa è lì vicino. E’ a Salerno che il
viaggio cambia marcia, si tuffa nell’ultimo atto, il più feroce e
assurdo di quei millecentoessette chilometri.
Dieci minuti e si
transita da Battipaglia, una curva a destra e comincia il
compartimento di Reggio Calabria, comincia la Tirrenica Meridionale.
Allevamenti di bufale, piantagioni, le montagne dell’Appennino e la
Basilicata a sinistra, il Tirreno e frutteti a destra. Capaccio,
Paestum e i resti della città che fu all’epoca di Roma, Ogliastro,
poi il treno lambisce il mare, quasi ci si tuffa, muore dalla voglia
di farlo, ma improvvisamente vira a sinistra lasciandosi Agropoli
alle spalle, buttandosi a capofitto nel Cilento per dimenticarsi di
quel mare maledetto. Qui non è più un serpeggiare, è un assurdo
aggredire con i denti le ripetute curve che la ferrovia disegna tra
le montagne, è vedere un ostacolo e andargli addosso pur di
spostarlo, infischiarsene delle difficoltà, degli impedimenti, e
andare avanti, sempre. E’ un’enorme lezione di libertà.
Centola (SA) |
Omignano e Vallo della
Lucania, poi di nuovo a destra, di nuovo sul mare. Palinuro e le sue
scogliere, visto dall’alto quel mare sembra ancora più infinito e
grande, ci fa sentire piccoli, minuscoli, ci fa riconciliare con la
nostra reale dimensione. Ascea, Pisciotta, poi per timore o per
necessità si rientra dentro alle montagne accarezzandole con lunghi
ed eleganti ponti come a Centola, o trafiggendole di netto come dopo
Celle di Bulgheria, per poi buttarsi un’ultima volta, quella
definitiva, in riva al mare.
Una sosta a Sapri per
prendere fiato, poi è il momento di mettersi in mezzo a due eterni
litiganti come l’Appennino e il Tirreno, che tra Sapri e Praja
vengono improvvisamente a contatto, non perdendo occasione per
prendersi a pugni e far venire fuori paesaggi incredibili,
inimmaginabili, come può essere inimmaginabile una montagna che
finisce di netto nel mare più azzurro che ci sia. E il treno passa
Acquafredda, passa Maratea, Marina di Maratea non lasciandoci il
tempo di respirare. E’ una tortura passare dal buio di una galleria
a quelle viste surreali, farlo ripetutamente, quasi a voler mandare
in tilt il cervello. E il finestrino diventa calamita, e gli occhi
metallo, e i pensieri scompaiono miseramente. Tutto è secondario.
Tra Acquafredda e Maratea (PZ) |
Praja arriva senza
farsene manco accorgere. E’ il benvenuto in Calabria, è il suo
sole che ci illumina sempre di più mentre si avvicina al mare per
andarsi a riposare. Passa Scalea, passa Marcellina, l’isola di
Dino, Cirella, tutto con una sola costante: spiagge, bagnanti, mare,
e quel sole che scende sempre più. E più scende, più ci strega,
più ci riempie del suo calore, più ci ipnotizza.
Tra Scalea e Diamante (CS), con l'Isola di Dino sulla sinistra |
Diamante, ultima fermata
prima di Paola. Il viaggio sta finendo, e anche se sono 10 ore che
stai col culo poggiato su quei sedili, vorresti restare lì ancora un
po’, sempre un po’ di più. Da Diamante a Paola si passa veloci
in mezzo alle decine di paesini di mare tirrenici, il mare compare a
tratti in mezzo alle case. Cetraro, Guardia, Acquappesa, Fuscaldo, è
ora di scendere i bagagli, lo spettacolo sta finendo.
Tra Cetraro e Paola (CS) |
Pian piano frena, i primi
scossoni degli scambi in ingresso alla stazione, e alla fine ci si
ferma proprio mentre il sole inizia ad accarezzare il mare, lì
all’orizzonte. Scendi e resti per due minuti a fissare quella palla
arancione che si condensa in uno spicchio, sempre di più, fino a
scomparire del tutto.
Poi il 1591 riparte per
Reggio. Fine del viaggio.
Paola (CS), il 1591 in partenza |