domenica 30 agosto 2015

IC 1591 - Tutta l'Italia da un finestrino

1.107.583 metri. Detta così è lunga, lunghissima, ti affatica solo a pensarla, ti affascina ad immaginarla, immaginare di salire quegli scalini e gettarsi a capofitto in un viaggio lungo la dorsale dello stivale, andando a scovare e smascherare tutti gli angoli, tutte le sfumature, tutti i dettagli che lo ricoprono. 
Sono oltre 10 ore di viaggio da Piacenza a Paola, un sacco di fermate intermedie, un qualcosa che ai tempi delle Frecce, di Italo, di un'Alta Velocità sentita come un bisogno morboso, un feticcio del tempo, sembra quasi anacronistico, fuori luogo, da matti. 
Eppure un treno di questi, se non hai fretta, è il miglior punto panoramico d'Italia. Basta un posto al finestrino -magari in prima classe-, qualcosa da mangiare e da bere, carta e penna, un paio di cuffiette. E il viaggio non diventa solo l'attuazione del rapporto tra spazio e tempo, diventa un qualcosa di più-


E passa la Toscana. Passano le colline, il treno che passa in piega ad Arezzo, danza tra Cortona, Montepulciano, le terre del Chianti, saluta Terontola e il Trasimeno che specchia quel cielo che ci rincorre, ci accarezza, ci dice che ancora ci vorrà un bel po’. Chiusi, poi la Direttissima, a 200 all’ora bucando e ribucando la colonna vertebrale d’Italia. E scorre Allerona, e scorre Orvieto, il suo duomo, il fascino scuro dell’Umbria, della Foresta dei Giganti a Bomarzo, del cucuzzolo su cui si erge Orte mentre veniamo mangiati dalla galleria che lo trafigge.

Chiusi (SI)

200 all’ora, poi 150, poi 110. Settebagni, una delle porte di Roma, le fermate imbrattate, umanità alla ricerca di una via lungo la Salaria, camion, treni, aerei, auto della polizia, puttane, manifesti, palazzi, finestre, semafori, colori, colori, colori, Nomentana, ponti, cemento, cemento, cemento e ancora cemento, Tiburtina, cinque persone, le strade e gli autobus, hipster e incravattati, Portonaccio, Roma da sotto, Roma da dietro, Roma da dentro, Roma sfiorata, Roma vissuta, Roma amata.
Poi Casilina, e si va a Napoli. Un ultimo saluto agli acquedotti lungo l’Appia, la lunga pianura dell’Agro Pontino messa lì a combattere con i monti del Circeo. Sermoneta che ci guarda dall’alto, Latina che nel suo razionalismo ci dice che no, non siete arrivati, c’è ancora strada da fare. Rocce e prati, prati e rocce. Sezze, Priverno, la lunga galleria, Monte San Biagio allungato su un costone di roccia. Il treno si piega, serpeggia, sembra volerci cullare a tutti con quello spettacolo che scorre dal finestrino come fosse l’ultima pellicola di Kubrik, talmente favoloso appare il paesaggio di questa dannata penisola.
Tra Itri e Formia (LT), il Tirreno col golfo di Gaeta

Itri. Un’altra galleria, i 25 ponti della vecchia ferrovia per Gaeta, ed eccolo lì, finalmente. Un tavolo blu che non finisce più, ci tende la mano, glie la stringiamo, “piacere, Tirreno” / “piacere, Viaggiatori del 1591 per Reggio Calabria”, parlottiamo per un po’, tempo di passare Formia e Minturno, poi ci dividiamo per vederci dopo, che lui ha da allietare i bagnanti di Mondragone nel frattempo. Ci salutano i monti Aurunci, spingendoci verso Villa Literno, dove con un’ampia curva a sinistra ci buttiamo dentro Casal di Principe, Albanova, Aversa, quelle terre afflitte da quel cancro maledetto chiamato camorra. Mattoni a vista, polvere, recinzioni con le reti dei materassi, auto bruciate, ragazzini che giocano a pallone con la maglia di Calaiò. Sant’Antimo, Frattamaggiore, Casoria. Case, casette, magazzini…poi il Vesuvio. Ti compare all’improvviso, quasi ti fa spaventare, la sua maestosità che incute timore e rispetto, la sua grandezza splendente della più vera autenticità. E Vesuvio vuol dire Napoli, Napoli vuol dire la città più bella del mondo. Te ne accorgi anche nei soli 15 minuti di sosta alla stazione centrale, perché la respiri l’aria di Napoli, quell’aria che ti libera l’anima e ti fa sorridere così, naturalmente, ti fa sorridere di quell’ostinato ottimismo che i Napoletani hanno insegnato a tutto il mondo.
Di nuovo a 200 all’ora alle spalle del Vesuvio, aggirandolo quasi nascosti tra gallerie e trincee, cercando di non disturbarlo nel suo dolce sonno. La galleria di Santa Lucia, poi improvvisamente Salerno. E Salerno non è solo una grande città, una stazione importante, è anche il posto dove capisci che ora sì, casa è lì vicino. E’ a Salerno che il viaggio cambia marcia, si tuffa nell’ultimo atto, il più feroce e assurdo di quei millecentoessette chilometri.
Dieci minuti e si transita da Battipaglia, una curva a destra e comincia il compartimento di Reggio Calabria, comincia la Tirrenica Meridionale. Allevamenti di bufale, piantagioni, le montagne dell’Appennino e la Basilicata a sinistra, il Tirreno e frutteti a destra. Capaccio, Paestum e i resti della città che fu all’epoca di Roma, Ogliastro, poi il treno lambisce il mare, quasi ci si tuffa, muore dalla voglia di farlo, ma improvvisamente vira a sinistra lasciandosi Agropoli alle spalle, buttandosi a capofitto nel Cilento per dimenticarsi di quel mare maledetto. Qui non è più un serpeggiare, è un assurdo aggredire con i denti le ripetute curve che la ferrovia disegna tra le montagne, è vedere un ostacolo e andargli addosso pur di spostarlo, infischiarsene delle difficoltà, degli impedimenti, e andare avanti, sempre. E’ un’enorme lezione di libertà.
Centola (SA)

Omignano e Vallo della Lucania, poi di nuovo a destra, di nuovo sul mare. Palinuro e le sue scogliere, visto dall’alto quel mare sembra ancora più infinito e grande, ci fa sentire piccoli, minuscoli, ci fa riconciliare con la nostra reale dimensione. Ascea, Pisciotta, poi per timore o per necessità si rientra dentro alle montagne accarezzandole con lunghi ed eleganti ponti come a Centola, o trafiggendole di netto come dopo Celle di Bulgheria, per poi buttarsi un’ultima volta, quella definitiva, in riva al mare.
Una sosta a Sapri per prendere fiato, poi è il momento di mettersi in mezzo a due eterni litiganti come l’Appennino e il Tirreno, che tra Sapri e Praja vengono improvvisamente a contatto, non perdendo occasione per prendersi a pugni e far venire fuori paesaggi incredibili, inimmaginabili, come può essere inimmaginabile una montagna che finisce di netto nel mare più azzurro che ci sia. E il treno passa Acquafredda, passa Maratea, Marina di Maratea non lasciandoci il tempo di respirare. E’ una tortura passare dal buio di una galleria a quelle viste surreali, farlo ripetutamente, quasi a voler mandare in tilt il cervello. E il finestrino diventa calamita, e gli occhi metallo, e i pensieri scompaiono miseramente. Tutto è secondario.

Tra Acquafredda e Maratea (PZ)

Praja arriva senza farsene manco accorgere. E’ il benvenuto in Calabria, è il suo sole che ci illumina sempre di più mentre si avvicina al mare per andarsi a riposare. Passa Scalea, passa Marcellina, l’isola di Dino, Cirella, tutto con una sola costante: spiagge, bagnanti, mare, e quel sole che scende sempre più. E più scende, più ci strega, più ci riempie del suo calore, più ci ipnotizza.
Tra Scalea e Diamante (CS), con l'Isola di Dino sulla sinistra

Diamante, ultima fermata prima di Paola. Il viaggio sta finendo, e anche se sono 10 ore che stai col culo poggiato su quei sedili, vorresti restare lì ancora un po’, sempre un po’ di più. Da Diamante a Paola si passa veloci in mezzo alle decine di paesini di mare tirrenici, il mare compare a tratti in mezzo alle case. Cetraro, Guardia, Acquappesa, Fuscaldo, è ora di scendere i bagagli, lo spettacolo sta finendo.
Tra Cetraro e Paola (CS)


Pian piano frena, i primi scossoni degli scambi in ingresso alla stazione, e alla fine ci si ferma proprio mentre il sole inizia ad accarezzare il mare, lì all’orizzonte. Scendi e resti per due minuti a fissare quella palla arancione che si condensa in uno spicchio, sempre di più, fino a scomparire del tutto.

Poi il 1591 riparte per Reggio. Fine del viaggio.

Paola (CS), il 1591 in partenza