sabato 12 dicembre 2015

Ha segnato Budimir

Venerdì 14 Agosto, a Piacenza fa caldo, caldissimo. I climatizzatori vanno a manetta, le scarpe antinfortunistiche in mezzo a pietre e rotaie sono una condanna, la gente per prendere un po' di fresco si tuffa nel Trebbia e nei centri commerciali, la scorta di Brasilena appena salita da giù è già agli sgoccioli.
Quel 14 agosto, 1200 chilometri più a sud, Crotone e Ternana si scontrano in Coppa Italia. E' la prima partita senza Antonio Galardo, il capitano, il nostro capitano, una delle ultime vere bandiere rimaste a solcare i campi di calcio italiani, che dopo la vittoria col Feralpi Salò ha deciso di smetterla con prati e scarpette chiodate. C'è una leggera sensazione di vuoto e malinconia nel leggere la formazione e non trovare il numero 4 e il simbolino della fascia di capitano accanto, la netta sensazione di un'epoca che si chiude.
Nelle due metà campo le maglie di due città, le mie due città, che hanno tanto in comune, tanto da raccontarsi, tanto da dire e tanto da piangere su capannoni e ciminiere. Una partita con due squadre che sono ancora in costruzione, Juric lo conosciamo solo piazzato lì a combattere a centrocampo con addosso la sua maglia numero 28, ma da allenatore non sembra convincere fin da subito.
Se davvero tutto è bene quel che finisce bene, segna Claiton e morta lì, Crotone 1-0 Ternana.

Claiton dopo il gol dell'1-0 alla Ternana. Foto Pipita (fotopipita.it)
Il Crotone passa il turno nel caldo di ferragosto, mi vibra il telefono con la notifica della fine dell'incontro, mi passa sotto gli occhi con sottile indifferenza.
Dopo un po', leggo in giro una frase ricorrente, troppo ricorrente: "Andiamo a Milano", "Tutti a San Siro". Ma che state dicendo? 
U Cutron a San Siro? 
Daver?
Daver. O meglio quasi, perchè tre giorni dopo, lunedì 17, a San Siro si gioca Milan-Perugia, e chi vince ci ospiterà a dicembre ai sedicesimi di finale. E' la volta buona che tifo Milan (c'è sempre una prima, vergognosissima, volta...), e infatti i rossoneri non deludono, battendo i grifoni per 2 a 0 grazie a Honda e Luis Adriano.
E così, finalmente, nel tabellone di Coppa Italia si realizza quella che sembrava una visione, una chimera, qualcosa che fino a prima potevi vedere solo a FIFA o a PES, una di quelle cose traducibili insomma in un sonoro "Earamadò!": Martedì 1 Dicembre 2015, Milan-Crotone, Stadio San Siro.

Nel frattempo la squadra prende forma e si perfeziona: arriva Ciccio Modesto, che a Crotone è nato ed ha girato mezza serie A, centrando da protagonista l'eroica salvezza con la Reggina nella stagione 2006/2007. Come ogni anno, buona parte della rosa si compone di un manipolo di giovani in prestito, provenienti dai più disparati settori giovanili delle "grandi": Yao, Capezzi, Ricci, Tounkara.
E i dubbi su Juric svaniscono presto: la squadra gioca bene, tremendamente bene, si piazza nella parte alta della classifica e da lì non scende più: di giornata in giornata Crotone e Cagliari si alternano in testa alla classifica, Bari, Novara e il Cesena dell'indimenticato mister Drago inseguono subito dietro affacciandosi ogni tanto sui due gradini più alti del podio. Dopo il pareggio di Perugia arrivano gli schiaffi a Bari (4-1), Salernitana (4-0) e Livorno (3-0), i pareggi di Vicenza e Lanciano, il passo falso a Pescara (4-1 per gli adriatici). 
La squadra c'è, la città torna ad affezionarsi agli Squali (perchè solo quando si vince?), e vedere Crotone lì sopra è strano quanto bello, veramente bello, da farti camminare col sorriso a 32 denti.
Arriviamo al 27 Novembre, Spezia-Crotone 0-1, anche al Picco gli squali fanno terra bruciata. Il Crotone è secondo in classifica ad un punto dal Cagliari, ma per una volta il campionato passa in secondo piano: a' capa sta a San Siro.

Martedì 1 Dicembre, a Piacenza fa freddo, freddissimo. I termosifoni cominciano a svolgere il loro lavoro, il garage della casa nuova evita di dover scendere venti minuti prima di casa quando si monta di servizio la mattina presto per raschiare il ghiaccio dai vetri della Punto, i primi pandori compaiono sugli scaffali dell'Ipercoop. Una mattinata tranquilla, almeno a Piacenza. Perchè a Milano, nella "gran Milan", si era riversata mezza Crotone: in piazza Duomo a centinaia, anche il presidente Vrenna e il capitano Galardo, in una giornata in cui a farla da padrone è stato il senso di appartenenza, la crotonesità, l'orgoglio delle proprie radici.



Partiamo, ci impieghiamo meno tempo per arrivare da Piacenza a Milano che per muoverci dentro la metropoli, sbisciando in viale Zara sul filo dell'ora di punta. A San Siro non sono mai stato, a malapena riesco ad individuare in che zona di Milano si trovi. Ad ogni bivio è una lotta per leggere i cartelli stradali e prendere la strada giusta, il tutto in quel traffico caotico, tra tram e Mercedes blu che scappano via come gatti indiavolati non centrando il tuo paraurti solo per intercessione divina.
Piazzale Lotto, svolta a destra e prosegui dice il navigatore. Vabbò.
Ma che sono quelle luci?
Ma è lo stadio?
Earamadò...
Earamadò. Questo direte, con voce tremolante grazie al brivido che vi percorrerà la schiena, quando vedrete per la prima volta San Siro dal vivo. Perchè San Siro è uno di quei posti che non trasmettono altro che la loro grandezza, fisica e soprattutto storica, anzi, epica. San Siro è epico, checchè se ne dica.
Assimilata la botta per nulla indifferente della visione di San Siro, ritrovata quella leggera dose di lucidità e soprattutto un parcheggio, comincia la passeggiata verso i tornelli.
Ma abbiamo sbagliato stadio? Perchè sentire cantare sotto le torri di quello stadio "Oimà chi d'è ssu Cutrone" da migliaia di persone non è normale. E non è normale sentire accenti di Crotone, Cirò, Strongoli, Rocca di Neto, Petilia, persino San Giovanni o Cosenza. Ma tutti 'ccà simu? Persino nel settore arancio, la tribuna laterale per intenderci, dove mi aspettavo di trovare una buona fetta di tifo milanista, è strapieno di crotonesi.
Earamadò.

San Siro

Da fuori San Siro mette i brividi, da dentro invece toglie il fiato, ti regala quei 8-10 secondi di apnea in cui cerchi un attimo di renderti conto di cosa sta succedendo. E nei primi 3 secondi capisci che sei a San Siro, nei restanti 5-7 la mente ritorna allo Scida vuoto nella partita di C1 contro l'Arezzo, in una giornata gelida, passata con papà in tribuna assieme ad altre 100, forse meno, persone. Pensi a quelle due stagioni di C1 caratterizzate da vagonate di sofferenza, di angoscia, di uno stadio che non si riempiva neanche con i biglietti venduti ad un euro, della gente che fino a ieri non parlava di altro che del Crotone e che, adesso, sembrava quasi essersi dimenticata che solo un anno prima su quel campo dietro l'ospedale ci avevano giocato tali Nedved e Buffon, e che solo pochi mesi prima, con Gasperini in panchina, aveva sfiorato il sogno Serie A.
Ecco, pensi che tutte quelle persone che c'erano in quella freddissima Crotone-Arezzo adesso erano lì, a provare le stesse sensazioni.

"Nella buona e nella cattiva sorte"

San Siro si colora di rossoblu mentre le squadre cominciano a scaldarsi, Cordaz è il primo dei nostri ad entrare, il primo a farci alzare la voce.
Durante il riscaldamento la curva pitagorica si riempie, partono i primi cori per scaldare anima e voce mentre la tensione comincia a farsi sentire. Ci siamo. Noi, non i milanisti.
Quando le squadre riemergono dagli spogliatoi, il paragone sugli spalti è impari. Con tutte le attenuanti del caso per i tifosi del Milan, abituati a ben altri palcoscenici, la sensazione che emana la curva rossonera è la stessa di quel Crotone-Arezzo: un tifo presente solo quando comoda.
Poi ti giri verso la curva Nord, quella occupata dai tifosi crotonesi, e...
...earamadò.

A inizio partita: curva del Milan

A inizio partita: curva del Crotone

Calcio d'inizio. Il Milan sembra subito prendere il sopravvento, Honda si fa vedere sulla sinistra dando più di un grattacapi alla nostra difesa, reparto che tiene grazie al soldato Martella e Yao. Passa un quarto d'ora, il tempo di entrare in partita, ed il Crotone inizia ad essere più sfrontato, a non avere paura dell'avversario ed a farsi vedere avanti, con la palla che viaggia spesso e volentieri dalle parti di Palladino, tant'è che Torromino e De Giorgio sono i primi ad impaurire Abbiati, con due palle gol a breve distanza l'una dall'altra. Dopo mezz'ora Palladino, visibilmente fuori condizione, lascia il posto a Budimir, nel momento in cui il Milan comincia a prendere le misure e ad impensierire Cordaz, chiamato all'intervento in più di un occasione su Nocerino e Suso. Il primo tempo finisce 0-0 poco dopo un altro brivido firmato Budimir.
Si spezza così il ritmo di una partita vivace, bella da vedere, con un Milan dal quale affiorano evidenti errori di impostazione della partita, mentre il Crotone gioca, tiene palla, crea occasioni, ma non riesce a finalizzare come dovrebbe.

La partita ricomincia con un Milan che appare adesso più deciso, più ragionato, nel quale si vedono subito le strigliate sparate da Mihajlovic durante i 15 minuti di spogliatoio.
E infatti arriva il gol di Luiz Adriano dopo solo due minuti dall'inizio del secondo tempo. Ed è un po' una botta allo stomaco, aver preso gol in un momento in cui eravamo noi a fare il gioco. La paura di un calo psicologico mette in soggezione anche noi in tribuna: i cori si fanno più deboli e la tensione sale alle stelle. Che sia già finito il sogno?
Ma è il campanello di allarme che risveglia gli Squali, con una squadra che si allunga, tirando fuori dal cilindro una verve fortemente offensiva, creando numerose incursioni verso la porta di Abbiati, con Martella che di testa sfiora il pareggio. Il Crotone spinge, il Milan si chiude.
Poi al minuto 23 rimessa laterale di Balasha, prende e controlla Budimir, improvvisamente accellera verso la porta e punta Zapata, con De Sciglio che resta alle spalle inerme spettatore.
Zapata va convinto sul pallone, Budimir ci mette il piede, un guizzo e lo manda a vuoto.
Un altro tocco, entra in area di rigore.
Budimir contro Abbiati.
Sinistro di Budimir.
Budimir...

Earamadò.



Ha segnato Budimir.
Cosa mi ricorderò di quel momento? Nulla. Ricordo solo la voce che era andata via, l'abbraccio a Morena come ad altri due-tre spettatori a caso lì intorno a me, i pianti per l'emozione. Pazzia, pazzia pura.
Am signat' a San Siro, am signat' a San Siro compà!
Era già tanto, tantissimo, ma non abbastanza: quel gol è stato come gettare benzina, kerosene ed alcool su un fuoco che già divampava discretamente. "Vincere. Vincere", questo cantavamo a squarciagola. E poco dopo Budimir stava per metterla dentro, quella maledetta palla. Ci è mancato tanto così che passasse sotto e non sopra la traversa.
Da lì in poi, un Milan visibilmente nervoso e senza più molto da dire ha cominciato a giocare di rimessa, qualche infantile scorrettezza di Luiz Adriano sfuggita al direttore di gara, un rigore per noi che forse c'era, forse non c'era, ma che non ha risparmiato l'arbitro da una valanga di "a fiss i mammta", "oi mmerdu", "ten'i corna" provenienti da mezzo stadio. A sangue freddo, mi sento anche un po' in colpa..
Con le forze che iniziavano a scarseggiare, e Mihajlovic che nel frattempo tirava fuori l'artiglieria buona (leggi Bonaventura, Niang e Montolivo nei supplementari), la situazione cominciava pian piano a ribaltarsi, facendo venire fuori la netta differenza sul piano atletico tra le due squadre.
Nonostante tutto, dopo 3 minuti di recupero, Milan 1-1 Crotone.
Earamadò.
Durante la pausa prima dei supplementari il mio sguardo incrocia la Curva Sud, quella occupata dai milanisti...e dove sono? Dove sono finiti? Avranno mica pensato che la partita è finita lì?
Mihajlovic nel dopo partita, interrogato sulla defezione dei tifosi rossoneri alla fine dei tempi regolamentari, dirà che non se n'era nemmeno accorto. Viene da ridere, non so se per il serbo o per i tifosi.
Nei supplementari la differenza sul piano fisico comincia a farsi abissale, il Crotone comincia visibilmente a perdere di velocità e lucidità pur lottando fino allo stremo e contenendo il Milan per tutto il primo tempo supplementare, con Stoian che non fa mancare i brividi alla difesa casalinga.
Il secondo supplementare si apre in maniera chiara: fallo rossoblu al limite dell'area di rigore, Bonaventura disegna una punizione magistrale, Cordaz è immobile. Milan 2-1 Crotone.
Non smettiamo di cantare, ma sento che quelle mani battono ormai più per ringraziamento che per incitamento. Il 3 a 1 arriva a pochi minuti dalla fine grazie a Niang, completamente dimenticato dalla difesa pitagorica.
Però sapete cosa vi dico? Va bene così. Va bene così perchè fino al triplice fischio ho visto una squadra che ha lottato, finchè ha potuto e finchè ne ha avuto non ha mollato la presa. Testardi, testardissimi, come mai mi era capitato di vedere in una partita di calcio.
Ci alziamo in piedi ed applaudiamo finchè non escono tutti dal campo, è il minimo che si possa fare per questi ragazzi.
Finisce che non ho più voce, chiamo a casa per dire che a Milano il Crotone ha vinto, anzi, ha sbunnatu. Anzi, avimu sbunnatu.

Gli highlights della partita

Ora, la domanda che probabilmente ti starai facendo è questa: perchè tutto 'sto casino per una partita di calcio?
Hai ragione nel dire che quei 90 minuti non cambieranno mai la mia vita, non mi faranno vivere meglio e non gonfieranno il mio conto in banca, anzi lo gonfieranno -e di parecchio- a qualcun altro. Ti do ragione anche sul fatto che quel pallone ci ha un po' lobotomizzato, che da fastidio pensare a come una città intera si mobiliti per la sua squadra di calcio e che poi non abbia il benchè minimo ritegno per tutti i guai che l'affliggono, che non sia capace di alzare il culo e la voce per null'altro che sia diverso dal Crotone o dalla Madonna di Capocolonna.

Ma non posso darti ragione se consideri tutto questo una cosa stupida.
Prova a pensare: se domani i crotonesi si svegliassero e cominciassero a parlare della loro città con tutto quell'orgoglio?
Immagina se cominciassero a parlare di Pitagora col petto in fuori, sottolineando come magari da lui ci discendiamo pure, lontanissimamente.
Immagina se cominciassero a bussare alle porte del Comune per chiedere che finalmente venga sistemato il polo archeologico di Capo Colonna, che ce lo invidia mezzo mondo.
Immagina se cominciassero a dire ai forestieri "Venite a Crotone, che c'è tanto da vedere".
Immagina se cominciassero a spiegarti quanta forza ci vuole per andarsene lontano, a Piacenza a lavorare, a Bologna a studiare, quanta forza ci vuole a sentire di notte il rumore delle fabbriche anzichè il mare incazzato.
Immagina se cominciassero a pagare il parchimetro, a rispettare gli spazi cittadini, a dare il giusto conto al prossimo, a non cercare di saltare la fila al pronto soccorso, a non votare più chi ti chiede di farlo per lui.
Immagina se un domani, insomma, Crotone dovesse diventare un posto migliore. Non è una causa persa, credimi, e sai su che base lo dico? La speranza me l'ha data questa semplice partita di calcio, me l'hanno data gli occhi pieni di forza e di orgoglio della gente che avevo vicino lì a San Siro.
Se siamo stati capaci di farlo per la nostra squadra, non è impossibile farlo per la nostra terra.

Forza Squalo

domenica 30 agosto 2015

IC 1591 - Tutta l'Italia da un finestrino

1.107.583 metri. Detta così è lunga, lunghissima, ti affatica solo a pensarla, ti affascina ad immaginarla, immaginare di salire quegli scalini e gettarsi a capofitto in un viaggio lungo la dorsale dello stivale, andando a scovare e smascherare tutti gli angoli, tutte le sfumature, tutti i dettagli che lo ricoprono. 
Sono oltre 10 ore di viaggio da Piacenza a Paola, un sacco di fermate intermedie, un qualcosa che ai tempi delle Frecce, di Italo, di un'Alta Velocità sentita come un bisogno morboso, un feticcio del tempo, sembra quasi anacronistico, fuori luogo, da matti. 
Eppure un treno di questi, se non hai fretta, è il miglior punto panoramico d'Italia. Basta un posto al finestrino -magari in prima classe-, qualcosa da mangiare e da bere, carta e penna, un paio di cuffiette. E il viaggio non diventa solo l'attuazione del rapporto tra spazio e tempo, diventa un qualcosa di più-


E passa la Toscana. Passano le colline, il treno che passa in piega ad Arezzo, danza tra Cortona, Montepulciano, le terre del Chianti, saluta Terontola e il Trasimeno che specchia quel cielo che ci rincorre, ci accarezza, ci dice che ancora ci vorrà un bel po’. Chiusi, poi la Direttissima, a 200 all’ora bucando e ribucando la colonna vertebrale d’Italia. E scorre Allerona, e scorre Orvieto, il suo duomo, il fascino scuro dell’Umbria, della Foresta dei Giganti a Bomarzo, del cucuzzolo su cui si erge Orte mentre veniamo mangiati dalla galleria che lo trafigge.

Chiusi (SI)

200 all’ora, poi 150, poi 110. Settebagni, una delle porte di Roma, le fermate imbrattate, umanità alla ricerca di una via lungo la Salaria, camion, treni, aerei, auto della polizia, puttane, manifesti, palazzi, finestre, semafori, colori, colori, colori, Nomentana, ponti, cemento, cemento, cemento e ancora cemento, Tiburtina, cinque persone, le strade e gli autobus, hipster e incravattati, Portonaccio, Roma da sotto, Roma da dietro, Roma da dentro, Roma sfiorata, Roma vissuta, Roma amata.
Poi Casilina, e si va a Napoli. Un ultimo saluto agli acquedotti lungo l’Appia, la lunga pianura dell’Agro Pontino messa lì a combattere con i monti del Circeo. Sermoneta che ci guarda dall’alto, Latina che nel suo razionalismo ci dice che no, non siete arrivati, c’è ancora strada da fare. Rocce e prati, prati e rocce. Sezze, Priverno, la lunga galleria, Monte San Biagio allungato su un costone di roccia. Il treno si piega, serpeggia, sembra volerci cullare a tutti con quello spettacolo che scorre dal finestrino come fosse l’ultima pellicola di Kubrik, talmente favoloso appare il paesaggio di questa dannata penisola.
Tra Itri e Formia (LT), il Tirreno col golfo di Gaeta

Itri. Un’altra galleria, i 25 ponti della vecchia ferrovia per Gaeta, ed eccolo lì, finalmente. Un tavolo blu che non finisce più, ci tende la mano, glie la stringiamo, “piacere, Tirreno” / “piacere, Viaggiatori del 1591 per Reggio Calabria”, parlottiamo per un po’, tempo di passare Formia e Minturno, poi ci dividiamo per vederci dopo, che lui ha da allietare i bagnanti di Mondragone nel frattempo. Ci salutano i monti Aurunci, spingendoci verso Villa Literno, dove con un’ampia curva a sinistra ci buttiamo dentro Casal di Principe, Albanova, Aversa, quelle terre afflitte da quel cancro maledetto chiamato camorra. Mattoni a vista, polvere, recinzioni con le reti dei materassi, auto bruciate, ragazzini che giocano a pallone con la maglia di Calaiò. Sant’Antimo, Frattamaggiore, Casoria. Case, casette, magazzini…poi il Vesuvio. Ti compare all’improvviso, quasi ti fa spaventare, la sua maestosità che incute timore e rispetto, la sua grandezza splendente della più vera autenticità. E Vesuvio vuol dire Napoli, Napoli vuol dire la città più bella del mondo. Te ne accorgi anche nei soli 15 minuti di sosta alla stazione centrale, perché la respiri l’aria di Napoli, quell’aria che ti libera l’anima e ti fa sorridere così, naturalmente, ti fa sorridere di quell’ostinato ottimismo che i Napoletani hanno insegnato a tutto il mondo.
Di nuovo a 200 all’ora alle spalle del Vesuvio, aggirandolo quasi nascosti tra gallerie e trincee, cercando di non disturbarlo nel suo dolce sonno. La galleria di Santa Lucia, poi improvvisamente Salerno. E Salerno non è solo una grande città, una stazione importante, è anche il posto dove capisci che ora sì, casa è lì vicino. E’ a Salerno che il viaggio cambia marcia, si tuffa nell’ultimo atto, il più feroce e assurdo di quei millecentoessette chilometri.
Dieci minuti e si transita da Battipaglia, una curva a destra e comincia il compartimento di Reggio Calabria, comincia la Tirrenica Meridionale. Allevamenti di bufale, piantagioni, le montagne dell’Appennino e la Basilicata a sinistra, il Tirreno e frutteti a destra. Capaccio, Paestum e i resti della città che fu all’epoca di Roma, Ogliastro, poi il treno lambisce il mare, quasi ci si tuffa, muore dalla voglia di farlo, ma improvvisamente vira a sinistra lasciandosi Agropoli alle spalle, buttandosi a capofitto nel Cilento per dimenticarsi di quel mare maledetto. Qui non è più un serpeggiare, è un assurdo aggredire con i denti le ripetute curve che la ferrovia disegna tra le montagne, è vedere un ostacolo e andargli addosso pur di spostarlo, infischiarsene delle difficoltà, degli impedimenti, e andare avanti, sempre. E’ un’enorme lezione di libertà.
Centola (SA)

Omignano e Vallo della Lucania, poi di nuovo a destra, di nuovo sul mare. Palinuro e le sue scogliere, visto dall’alto quel mare sembra ancora più infinito e grande, ci fa sentire piccoli, minuscoli, ci fa riconciliare con la nostra reale dimensione. Ascea, Pisciotta, poi per timore o per necessità si rientra dentro alle montagne accarezzandole con lunghi ed eleganti ponti come a Centola, o trafiggendole di netto come dopo Celle di Bulgheria, per poi buttarsi un’ultima volta, quella definitiva, in riva al mare.
Una sosta a Sapri per prendere fiato, poi è il momento di mettersi in mezzo a due eterni litiganti come l’Appennino e il Tirreno, che tra Sapri e Praja vengono improvvisamente a contatto, non perdendo occasione per prendersi a pugni e far venire fuori paesaggi incredibili, inimmaginabili, come può essere inimmaginabile una montagna che finisce di netto nel mare più azzurro che ci sia. E il treno passa Acquafredda, passa Maratea, Marina di Maratea non lasciandoci il tempo di respirare. E’ una tortura passare dal buio di una galleria a quelle viste surreali, farlo ripetutamente, quasi a voler mandare in tilt il cervello. E il finestrino diventa calamita, e gli occhi metallo, e i pensieri scompaiono miseramente. Tutto è secondario.

Tra Acquafredda e Maratea (PZ)

Praja arriva senza farsene manco accorgere. E’ il benvenuto in Calabria, è il suo sole che ci illumina sempre di più mentre si avvicina al mare per andarsi a riposare. Passa Scalea, passa Marcellina, l’isola di Dino, Cirella, tutto con una sola costante: spiagge, bagnanti, mare, e quel sole che scende sempre più. E più scende, più ci strega, più ci riempie del suo calore, più ci ipnotizza.
Tra Scalea e Diamante (CS), con l'Isola di Dino sulla sinistra

Diamante, ultima fermata prima di Paola. Il viaggio sta finendo, e anche se sono 10 ore che stai col culo poggiato su quei sedili, vorresti restare lì ancora un po’, sempre un po’ di più. Da Diamante a Paola si passa veloci in mezzo alle decine di paesini di mare tirrenici, il mare compare a tratti in mezzo alle case. Cetraro, Guardia, Acquappesa, Fuscaldo, è ora di scendere i bagagli, lo spettacolo sta finendo.
Tra Cetraro e Paola (CS)


Pian piano frena, i primi scossoni degli scambi in ingresso alla stazione, e alla fine ci si ferma proprio mentre il sole inizia ad accarezzare il mare, lì all’orizzonte. Scendi e resti per due minuti a fissare quella palla arancione che si condensa in uno spicchio, sempre di più, fino a scomparire del tutto.

Poi il 1591 riparte per Reggio. Fine del viaggio.

Paola (CS), il 1591 in partenza

venerdì 31 luglio 2015

Un salto a Seminara

Da Scilla l'autostrada sale con ampie curve, tra gallerie e ponti strallati, dando ogni tanto la vista dei vecchi viadotti in demolizione e del Tirreno che, visto da quell'altezza, sembra quasi una tavola di marmo solcata da minuscole formiche a forma di nave.
A Bagnara esci da quel mondo reale fatto di tabelloni e guard rail e, dopo una rotonda e un paio di sottovia, si comincia a danzare sulla vecchia Statale 18. E danzare non è per niente inappropriato, tra buche, curve con strane pendenze, auto che ti sorpassano felicemente con manovre dalla dubbia legalità.
Barritteri, paesino del paesino, quattro case e un tabaccaio, a due passi dal Monte Sant'Elia, là dove il diavolo spiccò il volo per inabissarsi dove oggi si erge lo Stromboli, là dove un piccolo bivio dà sulla ripida discesa che immette sulla stradina per Seminara.
Uliveti, uliveti, uliveti. Anzi, ulivare, ulivare, ulivare, il paesaggio si potrebbe sintetizzare così. Ogni tanto, tra un albero e l'altro, uno scorcio sulla Piana e sull'Aspromonte, cercando sempre di evitare quelle odiose buche proprio al centro della curva, agitando i piedi da un pedale all'altro per non far scappare via la macchina lungo la discesa.

La strada da Barritteri ti butta direttamente nel centro del paese, nel mondo irreale, un paio di incroci e c'è la piazza centrale.
Un grande quadrato battuto dal sole e colorato dai discorsi dei vecchietti, tutti, come fossero squadre, posizionati attorno alla loro panchina, nelle loro rughe e nelle loro camicie sudate, nelle consonanti raddoppiate, nelle vite passate e vissute.
Ogni tanto, al paese, come in ogni paese di quelli lì, incastonati tra le ulivare e lontani da ogni rotta di grande comunicazione, tornano i forestieri. Torna chi è partito, i figli o i nipoti di chi è partito, lontano o vicino, o meglio sufficientemente lontano da andarci una volta ogni tanto, sufficientemente lontano da metterti al di là della linea di demarcazione in cui si trovano i forestieri. Anzi, i ggenti 'i fora.

E può capitare che arrivi al paese per portare i fiori al cimitero dal nonno, e già che ci sei di cercare un po' di struncatura, magari quella servita ancora nella carta da pane, come una volta.
Quindi via, passi la piazza, arrivi davanti la basilica, giri a sinistra a cercare il fioraio.
E non c'è, tutto chiuso.
L'altro?
Pure quello mi pare chiuso.
E mo?
Andiamo al cimitero senza fiori, pazienza. Ma già che ci siamo chiediamo per la struncatura, tanto c'è un alimentari aperto lì accanto, con l'anziano proprietario chino a sistemare la cassetta di pomodori.
"Chiedo scusa, sapete dove possiamo trovare la struncatura?"
E niente.
"Scusi?"
E niente.
Poi esce una ragazzina, si avvicina e ci dice, con uno strano imbarazzo -quello abitudinario di chi ormai i clienti del negozio li conosce a memoria- che loro ce l'hanno, ma bisogna aspettare un'oretta finchè sua madre rientri. Bene, almeno una cosa ce l'abbiamo.
E fiorai? Sapete dove ne possiamo trovare?
Subito dopo si muove la tenda della macelleria accanto, esce un omone con una brioche gelato in mano ed il grembiule bianco ancora macchiato del sangue delle bestie.
"Signò, u fioraiu 'cca esti, mo' si 'ndi jiu"
Si affaccia dall'altro lato della strada...
"Aaaah, puru chiddu vicinu 'a farmacia esti chiusu. Vuliti ca vu chiamu u fioraiu?"
Non ricordo neanche cosa rispondemmo, sta di fatto che l'omone tirò fuori dalla tasca il telefono e chiamò.
"Ntò! Vì ca cci su genti i fora ca vannu cercandu fiuri. Po' veniri?"
Altri trenta secondi di conversazione, poi chiude il telefono e ci dice
"Signò aspettate 5 minuti ed il fioraio è qua"
Ancora spiazzati, ringraziamo ed aspettiamo. Talmente spiazzati da non capire se si riferisse al fioraio vicino a lui o a quello vicino la farmacia, 100 metri più avanti. Iniziamo quindi a vagare con poca convinzione lungo la via, tenendo d'occhio entrambe le saracinesche, aspettando che arrivi qualcuno.

A un certo punto, con noi a metà tra un negozio e l'altro, il macellaio si sbraccia e urla "Arrivau! Veniti!", mentre un furgoncino si parcheggia davanti la saracinesca vicina al macellaio. Scende un anziano, chiedendoci semmai fossimo noi quelli che lo stavamo aspettando, guardandoci con un'aria leggermente diffidente.
"Cchi fiuri vuliti?" esclama mentre ci porta 4 vasi tutti diversi tra loro. E non ci sei abituato, magari, a scegliere che fiori prendere, sai che vanno portati e basta, morta lì. Fiori per il cimitero, quello mi serve, stop.
"Senta, ma il cimitero lo troviamo aperto a quest'ora, vero?"
"Se vi devo dire una bugia, vi dico di si...è tardi".
E ti crolla il tetto di quel negozio addosso, ti tira una copanata in testa di quelle non indifferenti. Tutte quelle curve in mezzo alle ulivare, quelle beshtemmie tirate giù al ragazzino con la Golf che ti ha tagliato la strada poco dopo Marcellinara, tutte cose praticamente inutili.
"Ma i fiori a chi 'nci l'aviti purtari?"
"Lascala...non so se conoscete"
"Ah...Lascala...ma Lascala d'e signurini?"


Si, d'è signurini. Le signorine che sono le mie zie Maria e Carmela, entrambe viaggianti sul filo degli ottant'anni senza mettersi mai l'anello al dito, ancora oggi residenti nella villa di famiglia, quella Villa Rosaria che nei miei anni di mocciosaggine era un mondo da scoprire, dal giardino strapieno di piante e vasi nella classica ceramica di Seminara al vialetto che aggirava la casa finendo lì dove si radunavano sempre i gatti, dal torrente che correva accanto al cancello al burrone che dava sulla vecchia ferrovia per Sinopoli, scendendo dal quale si arrivava davanti alle due gallerie dove si andava a rifugiare l'intero paese durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale.

E una volta capito a che "razza" apparteniamo, e che poi tanto forestieri non siamo, ecco che il volto del fioraio cambia. Appare un primo abbozzo di serenità, e capito il problema non batte ciglio nel porgerci in un piatto d'argento la soluzione.
"Cominciate ad andare, vengo io e vi apro il cimitero, 'ccussì 'nci portati i fiuri".
Incartiamo i fiori, paghiamo e in tutta fretta andiamo verso il cimitero.
Un cimitero discreto, silenzioso, immerso anche lui nelle ulivare, lontano anche dalla provinciale per Melicuccà a cui è allacciato da una stradina ai limiti tra lo sterrato ed il terremotato. Ecco, quello si che è riposo perpetuo, e mi vengono in mente subito i poveri defunti di Lodi Vecchio, il loro cimitero, con attaccata alle mura un'industria petrolchimica ed un'autostrada poco oltre.
Arriviamo, il cancello è già aperto, da una stradina arriva il furgoncino del fioraio.
"Trasiti, faciti con comodo, tra poco arriva u' custode, tante cose!"
Tante cose, e va via quando vorresti scendere, abbracciarlo, fargli capire come nel mondo reale certe cose non si vedono, certe cose ce le eravamo scordate. Di brutto.
Una scalinata dà l'accesso ai sepolcri, e come al solito a regnare è solo il rumore delle cicale ed i brividi del vento, in quel posto dove l'eternità tende la mano alla transitorietà.
Ciao nonno, da quanto tempo. Lassù sta andando bene, tiriamo avanti, anche se già lo sai. Sono sudato, abbiamo fatto su e giù a Scilla e a Sant'Elia, non sai che scene prima di arrivare qui, quasi tornavo a casa a mani vuote, e non era cosa. Certo che dovevo preoccuparmi di venire, certo che dovevo, che non potevo rimandare. Che da Piacenza come vengo qui? Già Crotone è lontana. Come vengo a vedere quanto salde sono ancora le mie radici? Eccetera eccetera.

Poi, all'improvviso, spunta il custode.
"E' vostra la macchina grigia?"
"Si, si"
"Va bene...no perchè sono il custode, giusto per sapere, non vi preoccupate. Da dove venite? Siete suoi parenti?"
Ed è un libro che si apre, perchè nel mondo irreale tutti si conoscono, bene o male. Ed è lui a dirmi che una figlia del Dottore è a Milano, e sono io a dirgli che è mia zia, ed è lui a dirmi che suo marito lavora nelle ferrovie, e sono io a dirgli che anche io ci lavoro, ed è lui a dirmi che glie l'aveva accennato l'altra volta che aveva un nipote macchinista, e ci diciamo tante cose, scaviamo nel tempo e nel lavoro che non c'è, nel figlio che a 25 anni non trova come realizzarsi, nella Calabria martoriata, bellissima e martoriata, che non fa che soffrire e portare sofferenza, per colpa di chi non si sa, malanova m'avi.
E andiamo via, ci salutiamo cercando di quantificare con le parole la riconoscenza anche a lui, perchè non è stata una cosa qualsiasi, una cosa normale, che nel mondo reale non ci sarebbe stata.
Rientriamo. Di nuovo la strada, di nuovo il paesino, una sosta per prendere un po' di struncatura e per salutare i signurini, il loro latte di mandorla nel giardino, i ricordi, la banconota da 50 euro "cu chissa ti ccatti i caramelle", gli abbracci e il non sapere come salutarle adeguatamente.
La strada, ancora la strada, Palmi e lo svincolo dell'autostrada. E poi, il mondo reale.

Ma il problema è proprio questo, mondo reale e mondo irreale. Perchè li distinguo? Perchè Seminara è un mondo irreale, per me? Perchè la solidarietà, l'idea di una comunità che viene in soccorso di un forestiero per aiutarlo a fare ciò che vorrebbe fare, l'idea di una società fatta di persone e vissuta di persone, mi pare facciano parte di un mondo irreale? Perchè dev'essere normale, reale, l'isolamento di un'identità, il pensare solo alla propria strada, scremare le relazioni interpersonali a qualche uscita la sera, alle 8 ore di lavoro, e poco più -o meno-?
Perchè in quel mondo reale di soldi si campa e di umanità si muore?


venerdì 3 luglio 2015

Ipercoop

Grande parcheggio, uscita dedicata dalla tangenziale, un totem con 6-7 marchi che si vede da chilometri, un faro di luci variopinte nella monotonia del buio notturno. Quasi tutte le grandi città hanno da qualche parte, nella loro periferia, un qualcosa del genere. Grande, piccolo, col parcheggio coperto, 128 negozi e 2 salumerie, 3000 posti auto e 100 carrelli, sabato e domenica pieno, non trovi parcheggio, tiri una bestemmia al vecchio che viene contromano nel parcheggio.
E' un film, una pellicola che va avanti a ripetizione, quel posto li.
Frutta, verdure, affettati, carne, formaggi, cose in offerta, yogurt, birra, cereali, latte, biscotti, sugo, salse, pasta, surgelati, pagare. Entri in quel giro in cui l'altra gente sembra piazzata lì come birilli da scansare, una specie di MarioKart estrapolato dal Nintendo.
Fa impressione alzare la testa e guardare la gente all'Ipercoop. Guardare i loro occhi fissi agli scaffali o persi per aria pensando a cosa manca sulla lista, le facce spaesate dei mariti ed il passo sicuro e serafico delle mogli, i bimbi che si stropicciano gli occhi davanti al Tablo Perugina o con un pacchetto di San Carlo stretto fra le loro mani prima, fra quelle della madre mentre, sullo scaffale poi.
Cosa penseranno i commessi? Quante ce ne diranno dietro, a noi clienti? Di chi parleranno a casa?
Tutti diritti, tutti che vanno dove sanno di dover andare, sanno cosa cercare, tutti determinati, soli nella loro determinazione.
Una folla sola.